La memoria di un giorno
Prima parte
Lo scatto della serratura schiusa dal movimento della chiave nella toppa aveva provocato un rumore sordo che aveva rimbombato grave nel pianerottolo in un modo che non ricordavo. Entrai nell’appartamento dove mi accolse una penombra di cui comunque avevo dimestichezza. Mia madre teneva le persiane quasi sempre abbassate per metà nel pomeriggio. La chiamai con la voce roca che mi aveva regalato l’essere sorpreso fin da quella mattina dalla pioggerellina che cadeva fitta su Torino.
- Mamma?
Non ebbi risposta, almeno non subito, ma avvertii l’inconfondibile fruscio del corpo di mia madre che sfregava contro i versanti della poltrona in soggiorno. Attraversai il corridoio e mi affacciai. Mia madre si strava stropicciando il viso con il palmo della mano aperta. Rimasi fermo appoggiandomi con la spalla al muro coperta dalla carta da parati a motivi floreali che mio padre odiava tanto.
Mia madre sbadigliò, aprì e chiuse gli occhi in una rapida sequenza ripetuta un paio di volte, poi mi fissò, per un secondo circa, come se mi vedesse la prima volta, poi assunse un’espressione di gran dignità e finalmente disse:
- Oh ciao Ernesto.
- I miei omaggi signora.
- Oh la signora è tua moglie, io non ho mai avuto l’aspetto di una dama, magari di una brava sposa, quello è stato il mio massimo grado nella società.
Mentiva spudoratamente. Se c’era una donna nel condominio che poteva lontanamente assomigliare ad una figurina delle sfilate parigine quella era mia madre, pur non essendo alta aveva una fisico asciutto e dei bei capelli neri e lisci che teneva sempre legati in una leggera crocchia. Il naso semita scendeva verticale a dividere il suo volto levigato e bianco. Le tre gravidanze portarono il ventre e i fianchi a farsi ampi, ma solo dopo i quarant’anni inoltrati. Aveva un’eleganza sobria, da brava donna della media borghesia. Senza il gusto per l’eccentrico, ma per il buon taglio dei vestiti di pregiata foggia. La moglie di un impiegato di banca, poi vicedirettore di filiale. Mio padre Giovanni.
- A che ora è la recita di Marta?
- Alle 20 e 30.
- Che ora è adesso?
- Le 19
- Mi dovrò iniziare a vestire.
- Stai tranquilla ci mettiamo una ventina di minuti ad arrivare.
- Magari c’è traffico.
- Tutto calcolato, se partiamo per le 19 e 45 siamo alla scuola di Marta anche per le 20 e 10, operazioni di parcheggio comprese, quanto ci vuoi mettere a vestirti, un’ora?
- Magari un’ora no… ma dammi un quarto d’ora, una mezz’ora al massimo, vedi manca poco.
- Semmai, hai mangiato?
- Non ho fame.
Si alzò dalla poltrona e si mise in piedi, passò le mani sul caftano blu scuro che indossava, poi si diresse alla tapparella del soggiorno e la tirò su, scostando le tende si mise ad osservare il cortile del condominio in cui i particolari di pareti, angoli, finestre, balconi, ringhiere, garage, tetti, vetrate, comignoli si smarrivano nell’imbrunire del giorno.
Le arrivai di fianco, notai il suo profilo corrucciato in una espressione interrogativa.
Le chiesi:
- Tutto bene mamma? Te la senti di uscire?
Lei si voltò e con un gran respiro, rispose:
- Sì, certo. È che… è un periodo…
- Non è che ti disturbi vedere lo spettacolo?
Mia madre si allontanò da me e dalla portafinestra del balcone. Fece un paio di passi nel soggiorno, poi agitò la mano destra vicino alla testa, come in un gesto teatrale di saluto. Si voltò e mi disse:
- Sai non ci avevo mai pensato molto da quando ero tornata da Auschwitz.
- Lo so, non ne parli mai. Capisco, sai…
- Ma se non né ho mai parlato di cosa vuoi capire?
Fui colto in contropiede, non riconoscevo in lei quella particolare insofferenza. Forse avevo fatto una gaffes.
- Sono tornata a Torino che era l’inizio del ’46. la guerra qui era finita da nove mesi. Ma era un’anno che avevo lasciato il lager. Io e mia madre ci mettemmo mesi per capire in che recondito angolo d’Europa ci avevano sbattute, adesso ci puoi andare anche in un giorno lì, ma nel ’45, la guerra aveva distrutto le vie di comunicazione e ….
- Sì, certo, lo so ho letto “la Tregua” di Primo Levi, la sua Odissea, anche lui tornò a casa dopo peripezie e un giro fino a Russia, Ucraina e Romania..
Mia madre mi fulminò severa. In quarantacinque anni era la prima volta che mi stava parlando della sua esperienza ad Auschwitz, ed io non trovavo di meglio che fare il “professorino”. Proprio come mi chiamava a volte mio figlio Adriano.
- No, scusa, mamma… hai ragione, vai avanti…
Lei scosse un po’ la testa, e disse:
- Vado a vestirmi, parliamo dopo.
10 commenti:
mi pare che a Genova diano una mostra con i disegni fatti da due internati di nascosto durante gli anni di prigionia in un lager. Mi piacerebbe andare a vederla
Sì, credo che nessuno possa capire......
La mostra finiva oggi sigh! l'hanno tenuta solo 18 giorni!
X Effimeramente: Che giramondo che sei, appena tornata da Bologna, punti già a Genova! Città che adoro, ha dato i natali a De Andrè e Tenco, mi sento un po' ligure d'adozione....
X Stella Vale: capire l'orrore è difficile, si potrebbe impazzire, ma capire che non deve più succedere quello sì che si può fare!
Effimeramente ci siamo scritti in contemporanea! Comunque è un peccato davvero, troverò presto un altro motivo per passare da Genova. Speriamo in Sanguinetti sindaco!
fino al 02/02 c'è una mostra sui lager dal puntoi di vista dei Gay, se ti interessa, a Palazzo Ducale
Non deve più succedere no.
E non si deve dimenticare. Parlandone in giro, spesso mi rendo conto che davvero pochi sanno davvero di cosa si parla. E' troppo facile dimenticare, pensare che sia passato e basta.
CHE PAURA
MONAKA
X Effimeramente: Se non sbaglio i gay erano riconoscibili nei lager da un triangolo rosa. Ogni tanto sfugge che anche Omosessuali, rom, testimoni di Geova, anarchici, comunisti, socialisti ed altri oppositori politici, erano destinati ai lager per la "soluzione finale"....
X marea: la memoria è un mecccanismo da oliare di continuo!
X Monaka: ma dai.... neanche troppa...
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