23 febbraio 2007

La Memoria di un giorno
parte sesta
Nella notte del 26 Dicembre di quell’anno nacque la figlia di Eliana. Mia sorella era molto indecisa su come chiamarla, poi accettò il suggerimento di nostra madre, che insistette per Lalla, così visto che mia sorella si sentiva in debito verso di lei acconsentì per quel nome. Dopo un anno Eliana riuscì a trovare lavoro presso un supermercato che si trovava nel quartiere di Mirafiori, lì conobbe Renato, un uomo più grande di lei di qualche anno, andarono a vivere insieme ad Orbassano ed ebbero altri due figli, Luca ed Amalia. Sono tutt’ora una bella famiglia, ma un po’ solitari, li vediamo poco, cosa che ha sempre fatto soffrire molto mia madre.
La famiglia, per mia madre è stata sempre una passione. Allevare i figli, vederli crescere, spingerli ad avere esperienze, sentirgli raccontare la loro la vita, nel bene e nel male, gli sembrava un modo di condurre più vite insieme, percorrere quelle vicende umane a cui lei aveva, intenzionalmente o no, dovuto rinunciare, come viaggiare, studiare, suonare, avere amici, lavorare, vedersi la sera in un bar, sorridere a battute sguaiate, guardare distratta la città dai finestrini opachi di un bus mentre ci si trascina ad un appuntamento con un collega, canticchiare canzoni d’amore senza rime. Avessimo anche noi, figli suoi, assaggiato la vita con più spirito di conservazione, più che di riproduzione, gli avremmo regalato più gioie, più cartoline di estati passati in Grecia, più poesie lette sui muri di cessi di bar di mezza Europa.
Così, mentre parcheggiavo la macchina, tra un bidone della spazzatura e un piccolo fuoristrada ammaccato, intercettavo quella vaporosa malinconia negli angoli delle labbra di mia madre, segno che qualche fantasma, in più del solito, le lasciava una scia nel cuore. Il teatro era a pochi metri, qualcuno si era già radunato fuori.
Mia madre, lungo il marciapiede, ebbe un breve slancio ansioso nel prendere il mio braccio. Le chiesi allora:
- Mamma, che c’è? Stai bene?
- Sì, Ernesto, sono solo un po’ emozionata, sai sono davvero anni che non vado a teatro.
- Vabbè… è una recita di scuola…
- Ma c’è la nostra piccola Marta! Ma che padre sei se non ti emozioni?
- No, guarda che sono invece molto emozionato, e che sono cosciente che la piccola Marta avrà ancora molto da stupirci, lo sai com’è vulcanica. Chissà cosa ancora avrà in serbo per noi? In fondo… beh sì… sono più curioso che emozionato… ma anche emozionato, hai capito?
Mia madre mi scrutava vagamente interrogativa, poi disse:
- Certo, emozionato e curioso….
Mi sembrava volesse sottintendere qualcosa, poi stette zitta.
Entrammo nel teatro di quartiere che ospitava la recita, incrociammo insegnanti di Marta e genitori degli altri ragazzi; quando raggiungemmo i posti a sedere spuntarono Lucia ed Adriano, ci salutammo. Adriano era alle prese con la telecamerina, saltellava da un lato all’altra della sala, avanzava e arretrava lungo i corridoi laterali. Gli dissi:
- Guarda che consumi il nastro e le batterie per niente, poi quando entra tua sorella in scena sei a secco di entrambe.
- Pà tranquillo…. Non sto girando, sto solo provando le inquadrature, e poi ho la batteria di riserva, ed anche questo…
Tirò fuori dalla tasca un faretto portatile che aggiustò sulla telecamera, mia madre disse:
- Hai pensato anche al buio, ma che bravo…
Ancora stupore verso di lui, mia madre proprio si sorprendeva per tutte le piccole cose che Adriano faceva, o forse si stupiva perché a 20 anni non era ancora incappato in qualche guaio come suo padre o i suoi zii, come invece aveva predetto con astio mio padre, quando suo nipote era piccolo e di temperamento scivoloso.
Certo i dreadlock che imprigionavano i lunghi capelli corvini di Adriano, il percing al sopracciglio, i pantaloni lunghi e piuttosto sdruciti, le magliette che propagandavano acronimi anti-sistema mondiale, avrebbero soffocato chissà quali improperi nella gola di mio padre se se lo fosse trovato di fronte in tali condizioni. E persino mia madre lo trovava quantomeno un abbigliamento sui generis. Io e Lucia eravamo ormai abituati a vederci intorno allievi e figli dei nostri amici, agghindati in tal guisa. Il mondo, per certi aspetti, e per certi suoi abitanti, è un villaggio globale che comunica con l’esteriorità.
Ma in fondo già mio fratello Davide ci aveva iniziato a certi linguaggi.
Aggirarsi per i quartieri del centro di Torino conciato come un punk londinese non era poi uno spettacolo troppo inusuale, ma presentarsi allo stesso modo a cena in famiglia, nella nostra famiglia, quello era un altro discorso.
Mio padre era convinto che si drogasse, che qualche cattiva compagnia a scuola lo avesse traviato dalle camicie inamidate alle t-shirt bianche con il pacchetto di sigarette arrotolate in una manica. Ci si accorse troppo tardi quanto invece avesse influito semmai la poca attenzione che proprio lui concesse a mio fratello, alla poca voglia di capirlo e sostenerlo in un momento di difficoltà, forse sarebbe bastato andare in un campo di calcio a fare un paio di tiri ad un pallone. Invece capitò che una sera del maggio 1985, una volante della polizia intercettò mio fratello e un suo amico mentre aprivano una Ritmo per rubarla. Furono arrestati. Mio fratello raccontò che erano solo un po’ annoiati e avevano voglia di andare a fare un giro, insomma provare un’emozione nuova. Erano incensurati ed ebbero solo una lieve condanna che con la condizionale li lasciò a piede libero. Ma mio padre gli sbarrò la porta di casa, non valsero a nulla le suppliche di mia madre, così attraverso alcuni suoi amici gli fece recapitare la lettera-precetto per l’esercito. Mio fratello, che aveva goduto come me di trattamenti di favore per rinviare il servizio militare a data indeterminata, si ritrovò in partenza per una remota località friulana, nota per la sua caserma in stile punitivo.
- Vedrai se lì non ti raddrizzano, finalmente tornerai uomo!
Con queste parole mio padre congedò mio fratello Davide al suo destino.
Nelle settimane seguenti alla sua partenza per il Friuli mi arrivarono diverse lettere di mio fratello da cui scaturiva un forte malessere, una ansia esarcebata dal nonnismo che subiva in caserma. Mi raccontava che lo svegliavano di notte, facendolo letteralmente volare dalla branda, lo costringevano a rifare tutti i letti degli anziani, insultandolo e picchiandolo sulle spalle, puliva i cessi a mani nude, veniva rinchiuso negli armadietti che poi erano capovolti e fatti cadere a terra. Mi preoccupai, raccontai tutto a mio padre, che disse che era tipico di quei posti, che capitava a tutti, e che Davide era cresciuto troppo nella bambagia, ma ora si sarebbe svegliato. Purtroppo verso Ottobre ci arrivò la notizia di un suo mancato rientro in caserma dopo una serata in libera uscita. I carabinieri, che pensarono ad una sua fuga, lo cercarono in ogni dove. Ipotizzarono che avesse trovato il modo per raggiungere la Jugoslavia o l’Austria, o addirittura che fosse nascosto da qualche amico a Torino. Invece lo ritrovarono qualche settimana più tardi con il cranio fracassato in un dirupo poco lontano dalla caserma. Uno scherzo di un “nonno” andato male. La sera dopo il suo funerale mia madre andò a dormire nella sua camera e lasciò mio padre solo nella loro camera da letto per il resto della sua vita.

15 febbraio 2007

La memoria di un giorno
parte quinta
Era una mattina piuttosto calda, io e Lucia eravamo ancora alle prese con la sistemazione della casa, stavamo districandoci tra gli scatoloni, indecisi tra un divano da piazzare in salotto e un quadro di suo zio d’appendere in corridoio, con Adriano che dormiva beato nella culla accanto al nostro letto matrimoniale sfatto. Eliana suonò a sorpresa al nostro campanello, quando le aprii, la mia felicità si strozzò in gola quando mi accorsi delle rotondità inequivocabili del suo ventre. Mormorai appena un roco e confuso:
- Ma… ma Eliana, che è successo?
Mio figlio di due mesi dormiva a 10 metri da me, e io non avevo altro da dire. Dopo mi vergognai di non esser riuscito ad accogliere meglio mia sorella.
Tutti noi credevamo Eliana impegnata a lavorare come interprete centralinista in un albergo di Los Angeles, dove era sbarcata a gennaio, la sentivamo almeno una volta alla settimana, non ci aveva mai fatto capire niente di quello che le succedeva. Mi spiegò che infatti era così, almeno fino ad un paio di mesi prima, quando scoperse di essere incinta, poi vagò da alcuni amici, indecisa se abortire o no.
Io e Lucia la guardavamo imbarazzati, volevamo accarezzarla ma ci spiazzava il modo frammentario in cui raccontava i suoi accadimenti, poi una domanda ci premeva farle, senza trovare il coraggio di fargliela, ma lei ci anticipò:
- E poi… non so bene chi è il padre.
- Ma come? Come fai a non saperlo? – mi sconcertai io.
- E che ho avuto molte storie….
- Molte storie? Ma…
- No, non facevo la puttana, Ernesto, non preoccuparti, è che… insomma, a Los Angeles c’è molta libertà, artisti, gente che suona, sai com’è…
- No. Non so com’è…
Ed era vero. Lucia la conobbi solo qualche mese dopo la fine dell’obbligo di firma, in una biblioteca, me la presentarono amici, fu la prima ragazza con cui feci l’amore, anche se probabilmente, non fosse rimasta incinta un anno fa, io non l’avrei certo sposata così giovane e così vicino alla mia laurea, di sicuro il mio lavoro di collaboratore per una casa editrice non poteva certo dirsi remunerativo per permettersi anche una famiglia. E forse nelle parole che rivolsi a mia sorella c’era rabbia, preoccupazione ed anche un po’ d’invidia per la confessione di quella sua vita mondana, che io non ebbi mai.
- E comunque Ernesto, tu lo sai – continuò Eliana – io, non ho avuto mai molte attenzioni da parte dei ragazzi, non ho preso la bellezza di mamma, né la sua grazia, invece lì…. C’erano queste persone, con i loro loft, con i loro party, e i vestiti e poi… tutti curiosi di me, mi chiedevano se dipingessi o facessi l’attrice, e io dicevo di sì, mentivo, ma non troppo, perché…. ti ricordi,no? Ti ricordi che avevo fatto quel corso teatrale un paio di anni fa, dopo il diploma, quando non sapevo se andare all’Università o andare a lavorare, che poi avevamo fatto quella recita un po’ strana tutti vestiti di bianco, e io facevo le lancette di un’orologio ed ero invece vestita di nero, ti ricordi, no? Ecco lì a Los Angeles dicevo che cercavo la mia occasione ed intanto lavoravo in quell’albergo come traduttrice-telefonista, con quei turni assurdi, che poi di feste me ne ha fatte perdere tante, e io stavo bene, anche se mi spiaceva non essere venuta qui alla tua tesi, o al matrimonio, o alla nascita di Adriano, ma è che… avevo paura che se mi fossi allontanata da Los Angeles, poi al ritorno non avrei trovato più quella magia, insomma avevo paura di uscire dal giro….
Era tornata un sacco chiacchierona, anche se la mia rabbia un po’ cresceva, pari allo sbigottimento di trovarmi davanti la mia sorellina, una volta remissiva ed incerta, ora frequentatrice di altolocati giri della Pop-art americana. Gli chiesi:
- Beh, ma ora che pensi di fare?
- Ma, non so… il bambino devo tenerlo, ormai sono al quarto mese, potrei ritornare da mamma e papà, da loro c’è spazio anche per far crescere un bambino.
- Dico, ma credi che mamma e papà ti stiano aspettando a braccia aperte? Che ti dicano “Ah! Sei incinta? Toh guarda…. Vuoi l’insalata di riso stasera o preferisci del pesce?”, insomma credi che facciano finta di niente? Minimo gli piglia un accidente se ti vedono in questo stato!
- Beh allora? Mi ospitate voi?
Io e Lucia ci guardammo negli occhi, la casa non era piccola, Eliana poteva stare qui con noi per qualche settimana, ma poi?
Tacemmo a tutti il ritorno e la gravidanza di mia sorella per qualche giorno, poi invitai mio fratello Davide a casa con una scusa, appena la vide disse:
- Cazzzzzzooooo!
- Ma dai, manco mi saluti? – proruppe mia sorella.
Davide scuoteva la testa, era stato appena bocciato alla maturità, aveva fatto un sacco di assenze ingiustificate durante l’anno e andava in giro conciato come uno dei Clash con i Jeans sdruciti e le magliette bianche aderenti, i capelli impomatati sotto un basco rosso e gli stivali ai piedi. Decidemmo di tornare tutti e tre insieme dai nostri genitori quella sera, magari sarebbe stato più facile prenderli dal verso giusto, quale poi fosse non lo sapevamo neanche noi.
Ed infatti, quella sera a casa dei miei genitori, superato il primo atto di stupore per la nostra presenza, o meglio per quella di Eliana incinta tra me e Davide, mio padre esplose in un concitato attacco di collera, in cui ci urlò di tutto e di più, mentre mia madre rimase in silenzio con la bocca semiaperta, senza che un suono ne scaturisse.
Mio padre ad un certo punto inchiodò mia sorella con un:
- E si può sapere chi diavolo è il padre di questo bambino?
- Beh.. veramente – balbettò Eliana
- Il padre è uomo d’affari texano, ma che non vuole riconoscere il figlio, è già sposato. – intervenì io.
Eliana e Davide mi guardarono interrogativi, anche mio padre, che disse:
- Un uomo d’affari? Che uomo d’affari del menga!!! Ma io lo vado a scovare!!! Lo rovino!! Ha messo incinta mia figlia e poi non si prende le sue responsabilità….
- Papà è inutile, è un uomo potente, chissà magari si è già trasferito, magari è in Arizona – sparavo nomi di stati a caso, per impressionare il mio genitore – con quelli non si scherza..
- Sì, sì papà, era un uomo violento… ormai è andata così, perdonami, ma ora ho bisogno del tuo aiuto. – e detto ciò, Eliana si lasciò cadere su una sedia.
Mio padre ci guardò severo, non sapevo se stesse mangiando la foglia o meno. Avrebbe voluto ancora aggredirci verbalmente, metterci in contraddizione, picchiarci se avesse potuto, ma mia madre uscì dalla suo apparente choc, e preso per un braccio il marito, disse:
- Giovanni!! Nostra figlia ha bisogno di noi, pretendo che tu la smetta.
Poi guardando Eliana disse:
- Sapremo aiutarti, non temere. Avrei un bel bambino, sai.. io so come si fa.
- Anch’io. – dissi io.
Mio padre mi fulminò con lo sguardo, evidentemente provava risentimento per la mia paternità affrettata. Lo vidi avere un moto di rivalsa, forse avrebbe voluto avere lui l’ultima parola, quella sera, ma mia madre era già chinata amorevole e paziente sulla figlia, e mio padre desistette dai suoi propositi.
Alla fine andò come volle mia madre.

09 febbraio 2007

La memoria di un giorno
parte quarta
E comunque, rispetto alla mia disavventura che si risolse in un quattro mesi di arresti domiciliari e all’obbligo di firma per altri sei, di tutte le cazzate, quelle dei miei fratelli, furono di gran lunga più dirompenti per l’equilibrio psicofisico della mia famiglia,.
Tanto che quando mio padre morì un anno fa, molta gente, sommessamente e fuggevolmente, mormorarono che i dispiaceri dati dai figli gli furono più letali che il cancro alla prostata che lo consumò, almeno ufficialmente.
Mi misi in attesa di mia madre in corridoio, sapendola prossima ad uscire dalla camera da letto. Mi appoggiai al muro a braccia conserte, lei apparve con addosso l’abito da sera che indossava tanti anni fa quando accompagnava mio padre alle serate a teatro, era un abito ampio di seta nero, attorno ai fianchi compariva una sottile cintura di cuoio rosso, bordate di cornici di metallo, e intorno al collo una collana di grosse perle.
- Vado ancora un attimo in bagno.
- Ti sta bene ancora quel vestito.
- Non l’ho mai usato troppo, per fortuna è ancora abbastanza integro, ed è ancora uno dei pochi che sopportano i miei fianchi di nonna.
M’immaginavo la sua rapida toeletta, il solito passaggio tenue del rossetto e della cipria sulle guance, poi un ombretto celeste. Quando uscì dal bagno dimostrava ancora di essere una bella donna, nonostante gli anni e le peripezie.
Mi rimisi cappotto e sciarpa e scesi con mia madre in strada, salimmo in macchina e ci dirigemmo verso il teatro.
Mentre guidavo mia madre mi chiese:
- Ma una telecamera ce l’avete? Sarebbe bello avere un ricordo della serata.
- Sicuro! Ci pensa Adriano, gliel’abbiamo giusto regalata una a Natale.
- Ma la sa già usare?
- Certo.
- Che ragazzo intelligente.
Non capivo come mai mia madre fosse sempre così sorpresa da quello che faceva il mio primogenito. Da piccolo, Adriano, è sempre stato un bambino introverso e poco incline a dare confidenza, quando era con i nonni sembrava addirittura riluttante a scambiare qualche chiacchiera con loro, mio padre diceva che aveva il mio stesso carattere, che quindi sarebbe stato presto fonte di grane.
- ….che dietro le acquee chete, chissà che si nasconde?
Soleva sempre dire, alludendo al nipote, e poi ci fissava tutti con uno sguardo che in realtà trasudava un rimprovero collettivo. Passò i suoi ultimi 26 anni a rimestare rancore per i suoi familiari, compresa la moglie che alla fine perdonava tutti e lo aiutava poco a vigilare sulla prole, dispensando un eccessivo filosofismo indolente.
A dire la verità gli toccava anche sorbirsi i biasimi dei suoi genitori, che finche furono vivi, lo accusavano di essere eccessivamente accondiscendente verso di noi, anche per via di un certa rigidità che provavano verso mia madre. Erano cattolici e piuttosto tradizionalisti, provavano ancora una certa avversione verso gli ebrei, erano stati educati ad individuarli come i carnefici di Gesù, e per questo i rapporti con l’altra mia nonna, Miriam Levi, furono del tutto inesistenti o quasi. Mio padre forse era stato così rimpinzato dalla loro dottrina, che provò una certa repulsione verso la religione nella sua vita, divenne un moderato anticlericale, votava repubblicano o liberale a seconda di come gli girava, gli ultimi anni forse per Pannella&Bonino. Mio padre era sommariamente una persona complessa, ci teneva che apparissimo come persone colte, educate, eleganti, anche ambiziose, ci teneva al sogno di scalare la posizione sociale. Ma mostrava molta rigidità per arrivare al suo scopo. Tuttosommato aveva umili origini, era figlio di un manutentore delle ferrovie, Fredo Quaglino, e di una casalinga, Mariuccia Bianco, quest’ultima analfabeta e immersa perennemente nelle trasmissioni radio vaticane. Voleva diventare qualcosa di più. Lavorava alacremente, cercava di farsi sempre notare dalle alte sfere della sua banca, anche quando era fuori dal contesto lavorativo, perciò aveva messo su una bella famiglia insieme a quella presenza così signorile di mia madre, elegante e raffinata, anche umile, doveva portargli lustro non certo offuscarlo. Era al suo braccio in tutti i momenti ufficiali della sua carriera, di tanto in tanto anche con la presenza di noi figli, in un incantevole quadretto genuinamente borghese.
I miei genitori si erano conosciuti quando mio padre era prossimo alla partenza per il servizio militare. Li presentò un amico di mio padre, poiché mia madre era compagna di scuola della sorella di costui. Non raccontarono molto di quei tempi, sapevamo appena che si scrivevano lunghe lettere e che appena mio padre era in licenza si vedevano per bere un caffè in centro. Si sposarono che mia madre era appena diplomata, le sarebbe piaciuto lavorare, voleva fare la maestra, ma rimase incinta appena dopo il matrimonio, così rimase moglie e madre per il resto della vita, senza altre alternative.
Ed infondo andò tutto ben fino al mio arresto. Quell’episodio bloccò l’ascesa sociale di mio padre. Fu visto con sguardo inesorabile da quella società da cui smaniava di farsi accettare, le porte si chiusero e rimase vicedirettore di filiale a vita, per’altro sempre nello stesso posto, un’agenzia in una via interna di un quartiere popolare di Torino, ai bordi dell’Impero. Eppure Gianluca Fornasari era figlio di un imprenditore edile, Patrizio Cera era il rampollo di una famiglia che gestiva una società editrice e Olga Viarengo era la secondogenita di un dirigente del Psi e di una gallerista. Ma le loro famiglie non subirono disapprovazioni e bandi. Venne fuori che erano buoni ragazzi traviati dal figlio di un figlio di un manutentore delle ferrovie, gente che non sa stare a tavola, beve vino insipido, si veste con camicie comprate a Porta Palazzo e usa il pullman. Se lo fossimo stati veramente forse ci saremmo divertiti di più.
Eppure, personalmente, ce la misi tutta per riabilitarmi dopo l’accaduto, e a rientrare nei binari di quella decenza che mio padre urlava perduta ai quattro venti. Nella primavera di poco più di cinque anni dopo mi laureai in storia antica, mi sposai con Lucia, che conobbi in una libreria dove lavorava, e nacque Adriano, tutto nel giro di pochi mesi, ai miei non sembrò vero che la normalità rientrava a far parte della quotidianità della famiglia.
Ed infatti a Luglio del 1983 mia sorella Eliana tornò a casa dagli Stati Uniti incinta, ma non sapeva chi era il padre.

05 febbraio 2007

La memoria di un giorno
parte terza
Erano i miei primi anni dell’Università. Erano anni d’impegno politico. Erano anni in cui non credevi ci fosse altra soluzione che la rivoluzione per sentirsi parte del cambiamento del mondo. Era il 1977. Era una mattina di fine novembre, ed eravamo io, e i miei compagni di corso Gianluca Fornasari, Patrizio Cera e la sua ragazza Olga Viarengo, facevamo parte di una cellula studentesca di un organizzazione che si chiamava “Popolo Operaio per la Rivoluzione”, ora viene da sorridere sapendo che nessuno di noi era mai stato in una fabbrica, né ci avrebbe mai messo piede neanche in seguito. Eravamo figli della medio – buona borghesia, ascoltavamo gli Area e leggevamo giornalini ciclostilati con poesie e fumetti suburbani, partecipavamo alle assemblee politiche nelle aule dell’Università, fummo avvicinati da alcuni attivisti di questo movimento della galassia extraparlamentare, venivano da Milano, si dicevano leninisti e vicini alle esperienze vietnamite, dichiarazioni come tante se ne sentivano in quegli anni. Facevamo volantinaggi davanti all’Università e a fabbriche durante i cambi turni, ci davano da leggere opuscoli sui piani quinquennali in Unione Sovietica, organizzavamo, in cantine di case si alcuni di noi, proiezioni di documentari in super 8 girati a Parigi durante il maggio francese del ‘68, a cui seguivano riunioni e discussioni sul livello di autonomia dell’agire politico del nostro gruppo di fronte al crescente movimento rivoluzionario. Ma la mattina del 16 novembre le Brigate Rosse spararono quattro colpi di pistola contro il vicedirettore de “La Stampa” Carlo Casalegno, che morirà dodici giorni dopo. Il clima già teso si fece tesissimo. Anche per il nostro sparuto gruppo. Quella mattina eravamo alla stazione di Porta Nuova che distribuivamo volantini in cui denunciavamo che la morte in carcere, in Germania, dei componenti della “Rote Armee Fraktion” fossero in verità omicidi camuffati da suicidi. Una cosa già fatta e rifatta. Cominciava anche ad essere noioso, ero anche più tediato dei pendolari che incrociavo davanti ai binari e a cui tendevo indolente ed infreddolito il foglio ciclostilato. Ad un certo punto fui scosso da alcune urle alle mie spalle, mi girai e vidi Patrizio Cera avvinghiato furiosamente ad un ferroviere, mentre Olga era per terra tra i fogli sparsi, che si teneva la bocca che sanguinava copiosamente; io e Gianluca ci catapultammo sui due per dividerli, quando il ferroviere si liberò dalla morsa di Patrizio notai che portava sul bavero una spillina del Movimento Sociale, capii allora che fosse una trappola ed infatti dopo brevissimi attimi arrivarono gli agenti della Polizia Ferroviaria che ci ammanettarono rapidamente e ci portarono fuori dalla stazione dal lato di Via Sacchi, ci fecero sedere per terra, Olga piangeva e il sangue stava inzuppandogli la sciarpa giallognola che portava al collo, avevo Patrizio accanto che respirava torbido come un toro pronto alla carica, gli chiesi:
- Ma che cazzo stavi combinando?
Lui mi guardò imbufalito e rispose che era intervenuto a difendere Olga su cui si era avventato quel ferroviere fascista.
Dopo una mezz’ora arrivò un cellulare dove fummo caricati senza buone maniere e portati in questura, lì fummo accusati di aver malmenato noi quel ferroviere, e di aver distribuito materiale insurrezionalista. Il poliziotto che c’interrogava, uno a uno a turno, era un uomo sui quarant’anni, con i capelli radi ed un completo beige. Aveva una voce roca e ci trattava come bambini viziati a cui piace giocare con le idee e gli slogan. Mentre m’interrogava entrò un agente che lo apostrofò dicendogli:
- Ispettore Jona, le vuole parlare il commissario Grandis.
- Sto interrogando, arrivo tra un quarto d’ora.
- Ma il commissario…
- Aspetterà un quarto d’ora!
- Allora io….
- Le dica quel che vuole.
- Va bene ispettore Jona.
Ispettore Emilio Jona. Avrebbe dovuto dirmi qualcosa quel nome. Passammo tre giorni alle Carceri Nuove, senza sapere quello che ci sarebbe capitato. Intanto “La Stampa” puntava il dito su di noi come emuli degli assassini di Casalegno. Poi ci riportarono di nuovo in questura ed io mi ritrovai un'altra volta davanti Jona. Questa volta aveva un’aria che trovai stranamente rilassata. Mi fece sedere davanti alla sua scrivania, eravamo soli, mi guardò profondamente, poi accese una sigaretta e mi disse:
- Ho parlato con tua madre.
Fui colto da sgomento. Cosa centrava mia madre? Avevano forse interrogato anche lei, la credevano una fiancheggiatrice delle BR? Magari con mio padre bancario e i miei fratelli studenti delle superiori? Lui colse il mio silenzio come un’espressione di smarrimento, e mi disse:
- Conosco bene tua madre e tua nonna Miriam Levi. Sono tornati da Auschwitz insieme a mio padre e mia zio. Hanno diviso insieme il viaggio di ritorno. Fino a che tua madre non si sposò ci facevamo visita piuttosto regolarmente.
Io non riuscii che a rispondere che con un banale e striminzito:
- Ah sì… certo.
Mi ricordai che mia nonna parlava spesso di un tale Beniamino Jona che la veniva spesso a trovare, lo descriveva come un imperterrito scapolo, molto audace, ma era chiaro che nonostante si prendesse in giro per non essere più giovane ne era lusingata dal corteggio. Forse era lo zio dell’ispettore, che mi disse:
- Tua madre è stata molto convincente. Mi ha cercato, dice che sei un bravo ragazzo, che ti sei solo fatto un po’ distrarre dal clima che c’è…lo so, lo so… Siete solo dei piccoli animali acquatici che non si accorgono di nuotare accanto a dei pescecani cento volte più grossi di loro.
- Quindi ci libererete? – azzardai io.
- Al tempo! – mi mortificò Jona – non prima che tu ci dica un paio di cose.
- Io?
- Certo, conosci o non conosci Luigi Bosio?
Lo conoscevo, eccome. Era il responsabile di un gruppuscolo di studenti e lavoratori, più grandi, che partecipavano di tanto in tanto alle nostre riunioni. Facevano discorsi molto spinti, dicevano che avremmo dovuto prendere contatti con Prima Linea, noi tendevamo a isolarli nelle discussioni.
- Ma che volete sapere?
- Voglio sapere i suoi contatti, da chi è formato il suo nucleo, nomi ed indirizzi.
La spia. Ecco quello che avrei dovuto fare. Qualche nome ed indirizzo lo sapevo, ma mi vergognavo ad aprire bocca.
- Ma perché dovrei dirveli io?
- Mi sembri più sveglio dei tuoi amici. Ed anche quello più stanco di fare volantinaggi e guardare qualche filmaccio sulla vita di Ho-Chi-Min, vero? A te magari piacerebbe passare qualche serata in compagnia di qualche tua compagna di corso, andare ballare con tuoi amici, ti capisco sai…
Ci vedeva giusto. Cercavo di guardare altrove.
- Ma chi mi dice che poi ci liberete senza che niente fosse?
- Una scazzottata tra voi ed un ferroviere fascista? Due volantini? Se collabori stasera dormi nella tua cameretta e ti fai dare il bacio della buona notte da tua madre, il ferroviere non ha ancora sporto denuncia.
- Beh, allora che rischierei io?
- Ho detto che il ferroviere non ha “ancora” fatto denuncia…. E magari potrebbe saltare fuori un bel coltello, ne abbiamo giusto trovato uno vicino al binario dove eravate a fare volantinaggio. Finche non capiamo come c’è finito lì magari ci mettiamo giorni, mesi, e non possiamo mica lasciarvi andare troppo in giro. Mi pare che la tua amica Olga patisca particolarmente la cella, sai che non ha mai chiuso occhio finora? Piange, piange e piange…
Lo guardai qualche minuto, lui mi aspettò paziente. Gli dissi quello che voleva sapere.
Emilio Jona segnò nomi ed indirizzi su un foglietto, poi disse:
- Avevo promesso a tua madre che col mio interessamento saresti uscito subito.
E così la sera mi ritrovai a casa mia, con i miei genitori ed i miei fratelli intorno alla tavola. C’era il polpettone e mia madre ripeteva:
- Proprio una brava persona, quell’Emilio Jona, proprio una brava persona.
Quattro anni fa mi capitò di leggere sul giornale che un funzionario di polizia era stato arrestato per sfruttamento della prostituzione ad Ancona. Era Emilio Jona.