La Memoria di un giorno
parte sesta
Nella notte del 26 Dicembre di quell’anno nacque la figlia di Eliana. Mia sorella era molto indecisa su come chiamarla, poi accettò il suggerimento di nostra madre, che insistette per Lalla, così visto che mia sorella si sentiva in debito verso di lei acconsentì per quel nome. Dopo un anno Eliana riuscì a trovare lavoro presso un supermercato che si trovava nel quartiere di Mirafiori, lì conobbe Renato, un uomo più grande di lei di qualche anno, andarono a vivere insieme ad Orbassano ed ebbero altri due figli, Luca ed Amalia. Sono tutt’ora una bella famiglia, ma un po’ solitari, li vediamo poco, cosa che ha sempre fatto soffrire molto mia madre.
La famiglia, per mia madre è stata sempre una passione. Allevare i figli, vederli crescere, spingerli ad avere esperienze, sentirgli raccontare la loro la vita, nel bene e nel male, gli sembrava un modo di condurre più vite insieme, percorrere quelle vicende umane a cui lei aveva, intenzionalmente o no, dovuto rinunciare, come viaggiare, studiare, suonare, avere amici, lavorare, vedersi la sera in un bar, sorridere a battute sguaiate, guardare distratta la città dai finestrini opachi di un bus mentre ci si trascina ad un appuntamento con un collega, canticchiare canzoni d’amore senza rime. Avessimo anche noi, figli suoi, assaggiato la vita con più spirito di conservazione, più che di riproduzione, gli avremmo regalato più gioie, più cartoline di estati passati in Grecia, più poesie lette sui muri di cessi di bar di mezza Europa.
Così, mentre parcheggiavo la macchina, tra un bidone della spazzatura e un piccolo fuoristrada ammaccato, intercettavo quella vaporosa malinconia negli angoli delle labbra di mia madre, segno che qualche fantasma, in più del solito, le lasciava una scia nel cuore. Il teatro era a pochi metri, qualcuno si era già radunato fuori.
Mia madre, lungo il marciapiede, ebbe un breve slancio ansioso nel prendere il mio braccio. Le chiesi allora:
- Mamma, che c’è? Stai bene?
- Sì, Ernesto, sono solo un po’ emozionata, sai sono davvero anni che non vado a teatro.
- Vabbè… è una recita di scuola…
- Ma c’è la nostra piccola Marta! Ma che padre sei se non ti emozioni?
- No, guarda che sono invece molto emozionato, e che sono cosciente che la piccola Marta avrà ancora molto da stupirci, lo sai com’è vulcanica. Chissà cosa ancora avrà in serbo per noi? In fondo… beh sì… sono più curioso che emozionato… ma anche emozionato, hai capito?
Mia madre mi scrutava vagamente interrogativa, poi disse:
- Certo, emozionato e curioso….
Mi sembrava volesse sottintendere qualcosa, poi stette zitta.
Entrammo nel teatro di quartiere che ospitava la recita, incrociammo insegnanti di Marta e genitori degli altri ragazzi; quando raggiungemmo i posti a sedere spuntarono Lucia ed Adriano, ci salutammo. Adriano era alle prese con la telecamerina, saltellava da un lato all’altra della sala, avanzava e arretrava lungo i corridoi laterali. Gli dissi:
- Guarda che consumi il nastro e le batterie per niente, poi quando entra tua sorella in scena sei a secco di entrambe.
- Pà tranquillo…. Non sto girando, sto solo provando le inquadrature, e poi ho la batteria di riserva, ed anche questo…
Tirò fuori dalla tasca un faretto portatile che aggiustò sulla telecamera, mia madre disse:
- Hai pensato anche al buio, ma che bravo…
Ancora stupore verso di lui, mia madre proprio si sorprendeva per tutte le piccole cose che Adriano faceva, o forse si stupiva perché a 20 anni non era ancora incappato in qualche guaio come suo padre o i suoi zii, come invece aveva predetto con astio mio padre, quando suo nipote era piccolo e di temperamento scivoloso.
Certo i dreadlock che imprigionavano i lunghi capelli corvini di Adriano, il percing al sopracciglio, i pantaloni lunghi e piuttosto sdruciti, le magliette che propagandavano acronimi anti-sistema mondiale, avrebbero soffocato chissà quali improperi nella gola di mio padre se se lo fosse trovato di fronte in tali condizioni. E persino mia madre lo trovava quantomeno un abbigliamento sui generis. Io e Lucia eravamo ormai abituati a vederci intorno allievi e figli dei nostri amici, agghindati in tal guisa. Il mondo, per certi aspetti, e per certi suoi abitanti, è un villaggio globale che comunica con l’esteriorità.
Ma in fondo già mio fratello Davide ci aveva iniziato a certi linguaggi.
Aggirarsi per i quartieri del centro di Torino conciato come un punk londinese non era poi uno spettacolo troppo inusuale, ma presentarsi allo stesso modo a cena in famiglia, nella nostra famiglia, quello era un altro discorso.
Mio padre era convinto che si drogasse, che qualche cattiva compagnia a scuola lo avesse traviato dalle camicie inamidate alle t-shirt bianche con il pacchetto di sigarette arrotolate in una manica. Ci si accorse troppo tardi quanto invece avesse influito semmai la poca attenzione che proprio lui concesse a mio fratello, alla poca voglia di capirlo e sostenerlo in un momento di difficoltà, forse sarebbe bastato andare in un campo di calcio a fare un paio di tiri ad un pallone. Invece capitò che una sera del maggio 1985, una volante della polizia intercettò mio fratello e un suo amico mentre aprivano una Ritmo per rubarla. Furono arrestati. Mio fratello raccontò che erano solo un po’ annoiati e avevano voglia di andare a fare un giro, insomma provare un’emozione nuova. Erano incensurati ed ebbero solo una lieve condanna che con la condizionale li lasciò a piede libero. Ma mio padre gli sbarrò la porta di casa, non valsero a nulla le suppliche di mia madre, così attraverso alcuni suoi amici gli fece recapitare la lettera-precetto per l’esercito. Mio fratello, che aveva goduto come me di trattamenti di favore per rinviare il servizio militare a data indeterminata, si ritrovò in partenza per una remota località friulana, nota per la sua caserma in stile punitivo.
- Vedrai se lì non ti raddrizzano, finalmente tornerai uomo!
Con queste parole mio padre congedò mio fratello Davide al suo destino.
Nelle settimane seguenti alla sua partenza per il Friuli mi arrivarono diverse lettere di mio fratello da cui scaturiva un forte malessere, una ansia esarcebata dal nonnismo che subiva in caserma. Mi raccontava che lo svegliavano di notte, facendolo letteralmente volare dalla branda, lo costringevano a rifare tutti i letti degli anziani, insultandolo e picchiandolo sulle spalle, puliva i cessi a mani nude, veniva rinchiuso negli armadietti che poi erano capovolti e fatti cadere a terra. Mi preoccupai, raccontai tutto a mio padre, che disse che era tipico di quei posti, che capitava a tutti, e che Davide era cresciuto troppo nella bambagia, ma ora si sarebbe svegliato. Purtroppo verso Ottobre ci arrivò la notizia di un suo mancato rientro in caserma dopo una serata in libera uscita. I carabinieri, che pensarono ad una sua fuga, lo cercarono in ogni dove. Ipotizzarono che avesse trovato il modo per raggiungere la Jugoslavia o l’Austria, o addirittura che fosse nascosto da qualche amico a Torino. Invece lo ritrovarono qualche settimana più tardi con il cranio fracassato in un dirupo poco lontano dalla caserma. Uno scherzo di un “nonno” andato male. La sera dopo il suo funerale mia madre andò a dormire nella sua camera e lasciò mio padre solo nella loro camera da letto per il resto della sua vita.
La famiglia, per mia madre è stata sempre una passione. Allevare i figli, vederli crescere, spingerli ad avere esperienze, sentirgli raccontare la loro la vita, nel bene e nel male, gli sembrava un modo di condurre più vite insieme, percorrere quelle vicende umane a cui lei aveva, intenzionalmente o no, dovuto rinunciare, come viaggiare, studiare, suonare, avere amici, lavorare, vedersi la sera in un bar, sorridere a battute sguaiate, guardare distratta la città dai finestrini opachi di un bus mentre ci si trascina ad un appuntamento con un collega, canticchiare canzoni d’amore senza rime. Avessimo anche noi, figli suoi, assaggiato la vita con più spirito di conservazione, più che di riproduzione, gli avremmo regalato più gioie, più cartoline di estati passati in Grecia, più poesie lette sui muri di cessi di bar di mezza Europa.
Così, mentre parcheggiavo la macchina, tra un bidone della spazzatura e un piccolo fuoristrada ammaccato, intercettavo quella vaporosa malinconia negli angoli delle labbra di mia madre, segno che qualche fantasma, in più del solito, le lasciava una scia nel cuore. Il teatro era a pochi metri, qualcuno si era già radunato fuori.
Mia madre, lungo il marciapiede, ebbe un breve slancio ansioso nel prendere il mio braccio. Le chiesi allora:
- Mamma, che c’è? Stai bene?
- Sì, Ernesto, sono solo un po’ emozionata, sai sono davvero anni che non vado a teatro.
- Vabbè… è una recita di scuola…
- Ma c’è la nostra piccola Marta! Ma che padre sei se non ti emozioni?
- No, guarda che sono invece molto emozionato, e che sono cosciente che la piccola Marta avrà ancora molto da stupirci, lo sai com’è vulcanica. Chissà cosa ancora avrà in serbo per noi? In fondo… beh sì… sono più curioso che emozionato… ma anche emozionato, hai capito?
Mia madre mi scrutava vagamente interrogativa, poi disse:
- Certo, emozionato e curioso….
Mi sembrava volesse sottintendere qualcosa, poi stette zitta.
Entrammo nel teatro di quartiere che ospitava la recita, incrociammo insegnanti di Marta e genitori degli altri ragazzi; quando raggiungemmo i posti a sedere spuntarono Lucia ed Adriano, ci salutammo. Adriano era alle prese con la telecamerina, saltellava da un lato all’altra della sala, avanzava e arretrava lungo i corridoi laterali. Gli dissi:
- Guarda che consumi il nastro e le batterie per niente, poi quando entra tua sorella in scena sei a secco di entrambe.
- Pà tranquillo…. Non sto girando, sto solo provando le inquadrature, e poi ho la batteria di riserva, ed anche questo…
Tirò fuori dalla tasca un faretto portatile che aggiustò sulla telecamera, mia madre disse:
- Hai pensato anche al buio, ma che bravo…
Ancora stupore verso di lui, mia madre proprio si sorprendeva per tutte le piccole cose che Adriano faceva, o forse si stupiva perché a 20 anni non era ancora incappato in qualche guaio come suo padre o i suoi zii, come invece aveva predetto con astio mio padre, quando suo nipote era piccolo e di temperamento scivoloso.
Certo i dreadlock che imprigionavano i lunghi capelli corvini di Adriano, il percing al sopracciglio, i pantaloni lunghi e piuttosto sdruciti, le magliette che propagandavano acronimi anti-sistema mondiale, avrebbero soffocato chissà quali improperi nella gola di mio padre se se lo fosse trovato di fronte in tali condizioni. E persino mia madre lo trovava quantomeno un abbigliamento sui generis. Io e Lucia eravamo ormai abituati a vederci intorno allievi e figli dei nostri amici, agghindati in tal guisa. Il mondo, per certi aspetti, e per certi suoi abitanti, è un villaggio globale che comunica con l’esteriorità.
Ma in fondo già mio fratello Davide ci aveva iniziato a certi linguaggi.
Aggirarsi per i quartieri del centro di Torino conciato come un punk londinese non era poi uno spettacolo troppo inusuale, ma presentarsi allo stesso modo a cena in famiglia, nella nostra famiglia, quello era un altro discorso.
Mio padre era convinto che si drogasse, che qualche cattiva compagnia a scuola lo avesse traviato dalle camicie inamidate alle t-shirt bianche con il pacchetto di sigarette arrotolate in una manica. Ci si accorse troppo tardi quanto invece avesse influito semmai la poca attenzione che proprio lui concesse a mio fratello, alla poca voglia di capirlo e sostenerlo in un momento di difficoltà, forse sarebbe bastato andare in un campo di calcio a fare un paio di tiri ad un pallone. Invece capitò che una sera del maggio 1985, una volante della polizia intercettò mio fratello e un suo amico mentre aprivano una Ritmo per rubarla. Furono arrestati. Mio fratello raccontò che erano solo un po’ annoiati e avevano voglia di andare a fare un giro, insomma provare un’emozione nuova. Erano incensurati ed ebbero solo una lieve condanna che con la condizionale li lasciò a piede libero. Ma mio padre gli sbarrò la porta di casa, non valsero a nulla le suppliche di mia madre, così attraverso alcuni suoi amici gli fece recapitare la lettera-precetto per l’esercito. Mio fratello, che aveva goduto come me di trattamenti di favore per rinviare il servizio militare a data indeterminata, si ritrovò in partenza per una remota località friulana, nota per la sua caserma in stile punitivo.
- Vedrai se lì non ti raddrizzano, finalmente tornerai uomo!
Con queste parole mio padre congedò mio fratello Davide al suo destino.
Nelle settimane seguenti alla sua partenza per il Friuli mi arrivarono diverse lettere di mio fratello da cui scaturiva un forte malessere, una ansia esarcebata dal nonnismo che subiva in caserma. Mi raccontava che lo svegliavano di notte, facendolo letteralmente volare dalla branda, lo costringevano a rifare tutti i letti degli anziani, insultandolo e picchiandolo sulle spalle, puliva i cessi a mani nude, veniva rinchiuso negli armadietti che poi erano capovolti e fatti cadere a terra. Mi preoccupai, raccontai tutto a mio padre, che disse che era tipico di quei posti, che capitava a tutti, e che Davide era cresciuto troppo nella bambagia, ma ora si sarebbe svegliato. Purtroppo verso Ottobre ci arrivò la notizia di un suo mancato rientro in caserma dopo una serata in libera uscita. I carabinieri, che pensarono ad una sua fuga, lo cercarono in ogni dove. Ipotizzarono che avesse trovato il modo per raggiungere la Jugoslavia o l’Austria, o addirittura che fosse nascosto da qualche amico a Torino. Invece lo ritrovarono qualche settimana più tardi con il cranio fracassato in un dirupo poco lontano dalla caserma. Uno scherzo di un “nonno” andato male. La sera dopo il suo funerale mia madre andò a dormire nella sua camera e lasciò mio padre solo nella loro camera da letto per il resto della sua vita.