Cari bloggers, domani mattina parto, come ogni anno in questo periodo e per due settimane starò in Liguria; per lavoro ovviamente, precisamente per un "soggiorno estivo", come una colonia, per intenderci.
Di solito è un'occasione divertente, anche se molto faticosa, per stare insieme agli ospiti del nostro centro in un contesto più stimolante, rispetto al quotidiano.
Ci risentiremo dunque a inizio Luglio.
Nell'attesa vi lascio questo mio racconto, da leggere con calma dunque.
Vi abbraccio tutte e tutti.
Abbiate cura di voi, lavatevi i denti e guidate con prudenza.
Ciao.
Maurone
La mala vida
E’ un novembre che sento nelle ossa e vedo benissimo dal finestrino di questo vecchio tram; sono da un po’ di minuti seduto su un inospitale sedile di legno e acciaio, e ancora non riesco a scaldarmi, colpa del mezzo davvero datato e, ovviamente, della bassa temperatura.
Nonostante tutto, il vecchio 18 scorre rapido tra gli imponenti palazzi di via Madama Cristina, ne attraversa il mercato illuminato sotto le nuove avveniristiche arcate, che il mio occhio ancora non si è abituato e mi pare ancora di vedere la grigia e consunta copertura, con quella sensazione di sporco e fatica che avevo imparato a conoscere quando mia nonna mi ci portava a fare la spesa e mi diceva:
- Qui è più caro che a Porta Palazzo, ma ci son meno meridionali.
Dimenticando, forse per un attimo, che lo ero anch’io per metà; poi indicava un palazzo un po’ più in là e orgogliosa diceva:
- Vedi, lì è dov’è nato tuo padre cinquant’anni fa. E ho fatto tutta da sola con una levatrice. Tuo nonno stava in fabbrica e la sera è venuto con il vino e le paste fresche.
Mi ricordo che io e mia sorella chiedevamo spesso a nostro padre se ci poteva portare a vedere quella casa, che chissà cosa potevamo trovare lì tra quei muri spessi e le ringhiere arrugginite; ma nostro padre si rifiutò sempre, esprimendo con la sua tipica faccia torva e imbronciata un certo fastidio alla richiesta; nostra madre ci disse una volta che quello era uno di quei vecchi palazzi con il cesso sul ballatoio e ci abitavano solo famiglie povere.
Provo a scrollarmi un po’ sul sedile, ho un pesante giaccone di pelle nera e mi ci raccolgo dentro ben bene, per non sentire il precoce inverno, sbadiglio un paio di volte rapido, ora scorriamo via Accademia Albertina, stretta e leggermente in discesa, e penso che non potrò mai permettermi una casa in questa zona, e comunque Lisa, mia moglie, non sarebbe mai d’accordo; lasciare la periferia per il centro, credo, non le passi proprio per la testa, e comunque è proprio fuori dal caos che crediamo debba crescere nostro figlio Alessio.
Nonostante tutto, già scivoliamo per i giardini reali e vedo tra gli alberi una leggera condensa che fa da lenzuolo al brullo prato, poi in corso Regina Margherita mi accorgo che tra poco mi toccherà prenotare la discesa per raggiungere casa di Silvia, mia sorella.
Strano, Torino è una città in continuo ammodernamento e ricordo che percorrevo questo tratto già dieci anni fa per il mio primo lavoro, quando ero magazziniere in un colorificio di Corso Palermo, incredibilmente mi pare non sia cambiato niente, forse qualche extracomunitario in più in giro, qualche palazzo ridipinto, un certo numero di negozi più alla moda e tra le persone un’aria più precaria e meno cosciente, rispetto a quando ero un ventenne desideroso di una vita migliore.
Scendo in via Bologna e m’infilo in via Pedrotti, raggiungo l’isolato dove abita Silvia, essenziali case anni cinquanta, e giunto davanti al suo portone citofono con energia. Aspetto. Passano una decina di secondi. Riprovo. Altri dieci secondi. Comincia a salirmi una sottile preoccupazione, ma dopo poco risponde:
- Si, chi è?
- Silvia, sono Vince.
- Sali!
Ora mi sento più sveglio e rapido faccio i tre piani di scale fino all’alloggio di mia sorella, la porta è appena socchiusa ed entro scattante e leggermente goffo in casa. C’è una penombra data dalle serrande tirate su solo a metà, ma riconosco bene tutte le sagome dei mobili e delle sedie.
Silvia è in piedi in soggiorno vestita di una camicia di flanella e un paio di jeans un po’ lisi, rivolta tra le mani una felpa nera e verde che mia moglie gli regalò un paio d’anni fa per Natale.
- Eh.. sei arrivato?
- Sì certo, ma perché non rispondevi al citofono?
- Ero in bagno, la faccio anch’io la pipì.
- No, scusa.. è che mi ero preoccupato.
Sono anche un po’ imbarazzato, Silvia forse lo capisce, sorride, s’infila la felpa, mi si avvicina e mi si preme addosso, dice:
- Non ti preoccupare, non mi faccio fuori anche se ne ho forse le ragioni.
Non mi rassicura. Le chiedo:
- Che notizie hai di Claudio?
Silvia mi si scosta, guarda in basso, poi tirando su il viso fa:
- Ieri era a lavoro, stava finendo, son venuti i poliziotti e se lo son portati via; a me han chiamato quasi subito dei suoi colleghi più spaventati di me.
- L’ hai visto?
- No, non sono riuscito ancora a vederlo. Solo Dodo può vederlo e parlargli, e comunque lo stanno torchiando, quei bastardi….
- Dodo l’avvocato?
- Si… Federico “Dodo” Caligaris è l’avvocato storico di punk, anarchici, squatters e altra umanità varia, li difende praticamente gratis ai processi. Ma non pensavo che dovesse capitare anche a noi.
- Di cosa l’accusano di preciso?
- Bah.. banda armata, attività sovversiva… rapina.. terrorismo… non si capisce ancora, ma più che altro gli stanno chiedendo della scuola occupata e delle cose che si fanno lì dentro… ma Claudio non c’entra nulla; ora lavora e pensa a me e a nostro figlio.
Già, anche mia sorella aspetta un figlio, ma nonostante sia di tre mesi, il suo ventre è quasi impercettilmente più gonfio del normale.
Malgrado tutto provo a capirne un po’ di più di Claudio e il suo arresto:
- Senti, ma non mi pare che se gli chiedono della scuola sia molto grave, vedrai che in un paio di giorni si chiarisce. Dai…
Silvia aggrotta le sopracciglia e la vedo farsi prendere da una crescente e improvvisa ira.
- Ma la cosa è che lui non centra niente… che cazzo vogliono da noi, ci devono lasciare stare… staresti tranquillo e beato tu se ti venissero a prendere sul lavoro per rinchiuderti da qualche parte?
Mi accorgo che non ho dosato le parole in modo giusto e cerco di rientrare in una situazione più tranquilla:
- Ehi non volevo farti arrabbiare, lo sai..
- Eh si… certo.. ma è che proprio non dovevano farcela questa.. e poi adesso.. e oggi che ho l’ecografia in ospedale..
Di colpo lascia intravedere l’afflizione che la consuma da ieri pomeriggio, si siede su una sedia vicino al tavolo dove vedo i resti di un paio di scatole di biscotti, comincia a giochicchiare con le ciocche dei suoi capelli in modo nervoso, lo sguardo nervoso fisso davanti a sé.
Rimango fermo e in silenzio, ed ho ancora addosso il giaccone che ora mi fa sudare in modo evidente e fastidioso. Provo allora a dirgli qualcosa:
- Senti se ti devo accompagnare in ospedale forse è meglio che ci incamminiamo.
Lei sospira forte, guarda verso l’orologio sulla parete alla sua destra e dice:
- Son le otto da poco passate e ho l’appuntamento alle dieci, abbiamo tutto il tempo.
Dopodiché si sfila un telefonino dalla tasca dei pantaloni e inizia a scrivere un messaggio. Ho un pensiero celere e seccato che mi attraversa in un attimo la ragione, ma mi lascia subito; mi libero del giaccone e lo infilo sullo schienale di un’altra sedia, dall’altra parte del tavolo, e mi ci siedo ad aspettare qualcosa che non so.
Guardo intorno e tutto sommato non c’è una gran confusione, solo un paio di libri su un ripiano del mobiletto al mio fianco, un cd poggiato su un’altra sedia alla mia sinistra; lo prendo in mano, mentre Silvia continua rapida a scrivere caratteri sul display del suo cellulare, do un’occhiata alla copertina, è un live dei Mano Negra di una decina d’anni fa, cerco tra i titoli sul retro i ricordi di canzoni che avidamente ascoltavo alla radio in quegli anni: King Kong five, senor matanza, la mala vida….
Ho nella memoria i venerdì e i sabato sera al circolo “da Giau”, che si trovava, e si trova ancora adesso, al confine tra Mirafiori e Moncalieri; partivamo io, mia sorella, Dennis e Aldo, che erano due miei compagni di classe, poi a volte c’era Roby Starco, che abitava di fianco a noi, e la sua fidanzata, Manuela, bella ma molto smorfiosa. Quasi sempre ci si andava a piedi, che da via Onorato Vigliani, dove abitavamo, era vicino e valeva la pena di un giro tra le infami case di via Artom e via fratelli Maistre, edilizia popolare, nebbia e gambe pronte a correre se ti sentivi seguito, correre oltre il limite dei tuoi polmoni. Altre volte ci accompagnava in macchina Marco, il fratello maggiore di Dennis, che aveva una fidanzata a Moncalieri ed era di strada; ricordo che aveva una Ford Fiesta nera e cattiva musica dance che usciva dall’autoradio e ricordo le sghignazzate sui sedili posteriori quando ci si stava anche in quattro e belli compressi. I miei diciotto anni.
D’un tratto Silvia smette di trastullare il suo cellulare e mi fa:
- Ti va un caffè?
- Ma si, certo.
Si alza e va in cucina, la sento trafficare per un po’ con tazzine, cucchiaini, e altro rumore metallico, la sento accendere il fornello e tornare in soggiorno.
Mi guarda con un mezzo sorriso e mi dice:
- Vi ho spaventati ieri sera?
- Stanotte vorrai dire! Era mezzanotte passata e io, Lisa e il bambino si dormiva già da un po’… ma più che altro ero spaventato dal tuo tono di voce, si capiva pochissimo ciò che dicevi, per un attimo pensavo che avessero arrestato te…
- Piangevo, ero troppo presa male, tu non sai che cosa vuole dire essere in una situazione così, stanotte poi avrò dormito una o due ore, se quello che ho fatto si può vuol dire dormire…
- Ero quasi lì lì per venire da te, ma non capivo neanche dov’eri, era chiaro solo che dovevo essere qui stamattina sul presto per portarti in ospedale.
- Grazie, grazie…
Silvia torna in cucina, dopo poco la caffettiera inizia a emettere un lieve sibilo, sento di nuovo un armeggiare di ceramiche; ritorna da me con le tazzine e me ne porge una piena di caffè fin quasi all’orlo, sa che lo voglio amaro e non dice altro, si siede di fronte a me e inizia sorseggiare il suo, ogni tanto mi scruta con i suoi grandi occhi cerchiati ma saldi.
Il caffè è ben caldo e lo assaporo a piccoli sorsi, non è che poi ne senta, tra l’altro, un gran bisogno di berlo, ma volevo creare un qualcosa in cui, Silvia ed io, potevamo specchiarci l’un l’altro e saldare quel momento tra noi, in modo un po’ più ben definito, offrirle fiducia e dirle, senza aprir bocca, che io non l’avrei abbandonata.
È poi lei a spezzare di nuovo il silenzio chiedendomi:
- Ma Lisa è preoccupata, ha detto qualcosa?
- Certo che lo è, ieri ha capito subito la situazione e voleva venire anche lei, ma non possiamo sballottare troppo il bambino…
- E ieri notte si è svegliato? L’ ho spaventato?
- Ma guarda… ha continuato a dormire, non si è accorto di nulla, è un ghiro quel nanetto!
- Ha una zia un po’ disgraziata…
Ma vedo mia sorella essere un po’ sollevata, è molto affezionata a Lisa e Alessio; ricordo che i primi tempi in cui io e la mia futura moglie ci frequentavamo, loro due non erano molto amiche, anzi c’era una sottile irrequietezza tra esse, forse data da un po’ di gelosia nei miei confronti da parte di entrambe, ma poi la gravidanza di Lisa e il matrimonio che organizzammo un po’ rapidamente le avvicinò di parecchio e le aiutò a superare le diffidenze che nutrivano reciprocamente.
- Vince.. -, fa mia sorella - ma tu che cosa pensi? Ce la farò con questo bambino in arrivo? E se Claudio non torna? E se vengono a prendere anche me, quei fottuti bastardi?
Nel dire ciò posa la sua tazzina sul tavolo, con una torsione rapida del busto, poi poggia i gomiti sulle sue ginocchia ed appoggia il viso sui pugni, si concentra su di me. So che vuol dire quando è così, so cosa cerca adesso.
Le dico:
- Non ci sono problemi, sono sicuro, Claudio tornerà presto, e comunque ci sono qui io per adesso.
- Non lo so… è che non sono abituata a stare senza di lui… e poi… io me lo sentivo che avremmo dovuto non tenerlo questo bambino.
- E daiiii…
- Ma come “e daiii…”, è stato facile per te? Non mi pare proprio. Anche tu e Lisa non eravate poi così risoluti, anzi all’inizio eravate ben paurosi dell’idea di fare una famiglia.
- Ma lo sai che era un discorso più legato ai parenti di Lisa, no? Sono così ligi alla religione e ai suoi dogmi che abbiamo dovuto aspettare un po’, prenderli per il verso giusto.
- Sarà, però io ho anche paura di assomigliare ai nostri di genitori…
- Accidenti! Noi due siamo diversi da loro, e lo sai bene, non tirare sempre fuori questa storia.
M’irrito molto su quest’argomento e Silvia lo sa bene, ma pare non avere troppo voglia di lasciar perdere, si alza in piedi, incrocia le braccia sotto il petto, si curva verso di me e ritorna all’attacco:
- Chi lo dice che io sarei diversa da nostra madre, o da papà? In fondo gli assomigliamo anche molto fisicamente.
È vero; entrambi abbiamo i forti tratti somatici mediterranei di nostra madre: la pelle olivastra, i folti capelli corvini e un taglio nei lineamenti del volto che ricordano, fatalmente, un antichissimo marinaio o soldato Greco che, presumibilmente, mise su famiglia dalle parti di Siracusa, la città dove nacque e crebbe nostra madre prima di emigrare a Torino, dove conobbe e sposò nostro padre e da cui fuggì con un amante, quando noi eravamo ben grandicelli; nostro padre non tentò neanche di rintracciarla, non so se per indifferenza o vergogna, fatto sta che non cercò nemmeno di tenerci legati a lui nei pochi anni che seguirono e in cui Silvia ed io rimanemmo nella nostra casa di origine.
Fondamentalmente, poi, tra noi due, ci differenziamo per i nostri occhi, o meglio per la luce che emanano, che è lo specchio della nostra anima. Pacato, languido e un po’ fatalista il mio, inquieto, pieni di curiosità e in cerca di risposte quello di Silvia; ed è a questi occhi che devo rispondere ora, con una fermezza che devo avere assolutamente.
- Noi non siamo come papà e mamma ti ripeto!
- Ah! E cosa ci scommetteresti, eh?
- Ma dai, abbandoneresti mai Claudio? O ti pare che io scapperei da Lisa e Alessio? E ti sembra che ci tuffiamo nella freddezza più completa come papà? Ma non vedi che già questa discussione ci rende distinti dai nostri genitori?
Sento che Silvia allenta già la sua tensione, si risiede di fronte a me e dice con più pacatezza:
- E che a volte ho paura come di aver saltato un qualche stadio dell’apprendimento sentimentale. Se papà e mamma dovevano essere i nostri maestri in questo, non si sono certo sbattuti molto…
- Capisco, ma mi pare che di persone intorno a noi comunque n’abbiamo avute molte e che ci abbiano aiutato a capire e imparare molto.
- Già… come nonna, no? Ti ricordi? Come diceva.. “eh se ci fossero meno terroni le strade sarebbero meno sporche!”. Mamma la odiava, e la posso anche capire, una volta tanto..
- Eh su… sii seria!
- Ma perché ti pare che abbia voglia di dire cazzate! Con un fidanzato in carcere e un figlio nella pancia?
- Voglio dire che non parlavo certo di nostra nonna, ma tutti i nostri amici, e anche di Claudio e Lisa.
- Ma se corressimo il pericolo di perderli, come sta succedendo ora…
- Non temere, Claudio non starà via molto, ne sono sicuro, presto si risolverà tutto, fidati!
- Certo… mi fiderò di sbirri e magistrati fascistoidi, e magari anche di qualche politicante che invocherà capestri e punizioni esemplari, e perché no? Andrò a farmi intervistare da qualche talk-show delle due e mezza del pomeriggio, ma fra un po’, quando il pancione sarà più visibile e magari farò più pietà e più ascolti. Pensa: “Oggi signore e signori parlerà la donna del terrorista arrestato in questi giorni, ci parlerà del loro amore scandaloso e del figlio che lei porta in grembo!!” Figo no?
Devo ammettere che sono un po’ perplesso e desideroso di finire lì la discussione, per ciò gli abbozzo, a mezza voce, un:
- Ma smettila…
Silvia capisce che comincia ad essere pesante e forse un po’ troppo autocommiserevole e si quieta un attimo, gira un po’ il capo a destra e a sinistra come se stesse cercando qualcosa e poi torna a guardarmi e a domandarmi:
- Ti hanno fatto storie a lavoro?
- Dici per essermi assentato stamane?
- Si.
- Beh.. sono un po’ di manica stretta nel concederti permessi, soprattutto se non gli dai preavviso… ma stamattina ho fatto chiamare Lisa, che gli dovrebbe dire che ho avuto un’emergenza di famiglia, sentendo lei, immagino che non dovrebbero fare molte polemiche.
- Perché?
- Mah.. se telefonassi io non sembrerebbe così grave e farebbero mille domande per farti cambiare idea; sentendo Lisa si sentirebbero, secondo me, più in soggezione, e si convincerebbero che ci sarebbe qualcosa di troppo delicato per fare troppe questioni.
- Aaaah!
Guardo l’ora e decido che si sta facendo un po’ tardi, mi alzo e riagguanto la giacca e faccio:
- Dai andiamo, se si arriva anche un po’ presto non fa nulla.
- Eh.. va bene.
Silvia si alza con un movimento pesante, va nella stanza da letto e ritorna subito indietro con un cappottone da anni quaranta, le faccio:
- Ma da dove l’hai tirato fuori quello?
E mentre se lo infila lento mi fa:
- Al Balòn, solo otto euro! Un affare vero?
- Se lo dici tu!
Gli sorrido.
Lei assume una finta aria seria, dice:
- Che vuoi dire…? Elegantone della famiglia…
- No, niente… ti terrà sicuramente caldo, spero solo che tu l’abbia spulciato almeno…
- Scemo!
Ma ormai ridacchia e va ad aprire la porta d’ingresso, usciamo tutti e due e Silvia si tira dietro di sé la maniglia.
Per le scale mi precede di un paio di gradini, non le vedo il viso, ma me la immagino pensierosa e concentrata; infatti, poco prima di arrivare al pian terreno si ferma, girandosi rapidamente, mi guarda seria, e chiede:
- Andrà tutto bene?
La domino in alto da un paio di scalini, le rispondo infallibile:
- Sì, garantito!
Rimane a fissarmi, poi facendosi delicatamente più distesa, dice:
- Hai ragione.
Nell’androne filtrano pallidi raggi, tra il gioco degli infissi del portone.
E’ un novembre che sento nelle ossa e vedo benissimo dal finestrino di questo vecchio tram; sono da un po’ di minuti seduto su un inospitale sedile di legno e acciaio, e ancora non riesco a scaldarmi, colpa del mezzo davvero datato e, ovviamente, della bassa temperatura.
Nonostante tutto, il vecchio 18 scorre rapido tra gli imponenti palazzi di via Madama Cristina, ne attraversa il mercato illuminato sotto le nuove avveniristiche arcate, che il mio occhio ancora non si è abituato e mi pare ancora di vedere la grigia e consunta copertura, con quella sensazione di sporco e fatica che avevo imparato a conoscere quando mia nonna mi ci portava a fare la spesa e mi diceva:
- Qui è più caro che a Porta Palazzo, ma ci son meno meridionali.
Dimenticando, forse per un attimo, che lo ero anch’io per metà; poi indicava un palazzo un po’ più in là e orgogliosa diceva:
- Vedi, lì è dov’è nato tuo padre cinquant’anni fa. E ho fatto tutta da sola con una levatrice. Tuo nonno stava in fabbrica e la sera è venuto con il vino e le paste fresche.
Mi ricordo che io e mia sorella chiedevamo spesso a nostro padre se ci poteva portare a vedere quella casa, che chissà cosa potevamo trovare lì tra quei muri spessi e le ringhiere arrugginite; ma nostro padre si rifiutò sempre, esprimendo con la sua tipica faccia torva e imbronciata un certo fastidio alla richiesta; nostra madre ci disse una volta che quello era uno di quei vecchi palazzi con il cesso sul ballatoio e ci abitavano solo famiglie povere.
Provo a scrollarmi un po’ sul sedile, ho un pesante giaccone di pelle nera e mi ci raccolgo dentro ben bene, per non sentire il precoce inverno, sbadiglio un paio di volte rapido, ora scorriamo via Accademia Albertina, stretta e leggermente in discesa, e penso che non potrò mai permettermi una casa in questa zona, e comunque Lisa, mia moglie, non sarebbe mai d’accordo; lasciare la periferia per il centro, credo, non le passi proprio per la testa, e comunque è proprio fuori dal caos che crediamo debba crescere nostro figlio Alessio.
Nonostante tutto, già scivoliamo per i giardini reali e vedo tra gli alberi una leggera condensa che fa da lenzuolo al brullo prato, poi in corso Regina Margherita mi accorgo che tra poco mi toccherà prenotare la discesa per raggiungere casa di Silvia, mia sorella.
Strano, Torino è una città in continuo ammodernamento e ricordo che percorrevo questo tratto già dieci anni fa per il mio primo lavoro, quando ero magazziniere in un colorificio di Corso Palermo, incredibilmente mi pare non sia cambiato niente, forse qualche extracomunitario in più in giro, qualche palazzo ridipinto, un certo numero di negozi più alla moda e tra le persone un’aria più precaria e meno cosciente, rispetto a quando ero un ventenne desideroso di una vita migliore.
Scendo in via Bologna e m’infilo in via Pedrotti, raggiungo l’isolato dove abita Silvia, essenziali case anni cinquanta, e giunto davanti al suo portone citofono con energia. Aspetto. Passano una decina di secondi. Riprovo. Altri dieci secondi. Comincia a salirmi una sottile preoccupazione, ma dopo poco risponde:
- Si, chi è?
- Silvia, sono Vince.
- Sali!
Ora mi sento più sveglio e rapido faccio i tre piani di scale fino all’alloggio di mia sorella, la porta è appena socchiusa ed entro scattante e leggermente goffo in casa. C’è una penombra data dalle serrande tirate su solo a metà, ma riconosco bene tutte le sagome dei mobili e delle sedie.
Silvia è in piedi in soggiorno vestita di una camicia di flanella e un paio di jeans un po’ lisi, rivolta tra le mani una felpa nera e verde che mia moglie gli regalò un paio d’anni fa per Natale.
- Eh.. sei arrivato?
- Sì certo, ma perché non rispondevi al citofono?
- Ero in bagno, la faccio anch’io la pipì.
- No, scusa.. è che mi ero preoccupato.
Sono anche un po’ imbarazzato, Silvia forse lo capisce, sorride, s’infila la felpa, mi si avvicina e mi si preme addosso, dice:
- Non ti preoccupare, non mi faccio fuori anche se ne ho forse le ragioni.
Non mi rassicura. Le chiedo:
- Che notizie hai di Claudio?
Silvia mi si scosta, guarda in basso, poi tirando su il viso fa:
- Ieri era a lavoro, stava finendo, son venuti i poliziotti e se lo son portati via; a me han chiamato quasi subito dei suoi colleghi più spaventati di me.
- L’ hai visto?
- No, non sono riuscito ancora a vederlo. Solo Dodo può vederlo e parlargli, e comunque lo stanno torchiando, quei bastardi….
- Dodo l’avvocato?
- Si… Federico “Dodo” Caligaris è l’avvocato storico di punk, anarchici, squatters e altra umanità varia, li difende praticamente gratis ai processi. Ma non pensavo che dovesse capitare anche a noi.
- Di cosa l’accusano di preciso?
- Bah.. banda armata, attività sovversiva… rapina.. terrorismo… non si capisce ancora, ma più che altro gli stanno chiedendo della scuola occupata e delle cose che si fanno lì dentro… ma Claudio non c’entra nulla; ora lavora e pensa a me e a nostro figlio.
Già, anche mia sorella aspetta un figlio, ma nonostante sia di tre mesi, il suo ventre è quasi impercettilmente più gonfio del normale.
Malgrado tutto provo a capirne un po’ di più di Claudio e il suo arresto:
- Senti, ma non mi pare che se gli chiedono della scuola sia molto grave, vedrai che in un paio di giorni si chiarisce. Dai…
Silvia aggrotta le sopracciglia e la vedo farsi prendere da una crescente e improvvisa ira.
- Ma la cosa è che lui non centra niente… che cazzo vogliono da noi, ci devono lasciare stare… staresti tranquillo e beato tu se ti venissero a prendere sul lavoro per rinchiuderti da qualche parte?
Mi accorgo che non ho dosato le parole in modo giusto e cerco di rientrare in una situazione più tranquilla:
- Ehi non volevo farti arrabbiare, lo sai..
- Eh si… certo.. ma è che proprio non dovevano farcela questa.. e poi adesso.. e oggi che ho l’ecografia in ospedale..
Di colpo lascia intravedere l’afflizione che la consuma da ieri pomeriggio, si siede su una sedia vicino al tavolo dove vedo i resti di un paio di scatole di biscotti, comincia a giochicchiare con le ciocche dei suoi capelli in modo nervoso, lo sguardo nervoso fisso davanti a sé.
Rimango fermo e in silenzio, ed ho ancora addosso il giaccone che ora mi fa sudare in modo evidente e fastidioso. Provo allora a dirgli qualcosa:
- Senti se ti devo accompagnare in ospedale forse è meglio che ci incamminiamo.
Lei sospira forte, guarda verso l’orologio sulla parete alla sua destra e dice:
- Son le otto da poco passate e ho l’appuntamento alle dieci, abbiamo tutto il tempo.
Dopodiché si sfila un telefonino dalla tasca dei pantaloni e inizia a scrivere un messaggio. Ho un pensiero celere e seccato che mi attraversa in un attimo la ragione, ma mi lascia subito; mi libero del giaccone e lo infilo sullo schienale di un’altra sedia, dall’altra parte del tavolo, e mi ci siedo ad aspettare qualcosa che non so.
Guardo intorno e tutto sommato non c’è una gran confusione, solo un paio di libri su un ripiano del mobiletto al mio fianco, un cd poggiato su un’altra sedia alla mia sinistra; lo prendo in mano, mentre Silvia continua rapida a scrivere caratteri sul display del suo cellulare, do un’occhiata alla copertina, è un live dei Mano Negra di una decina d’anni fa, cerco tra i titoli sul retro i ricordi di canzoni che avidamente ascoltavo alla radio in quegli anni: King Kong five, senor matanza, la mala vida….
Ho nella memoria i venerdì e i sabato sera al circolo “da Giau”, che si trovava, e si trova ancora adesso, al confine tra Mirafiori e Moncalieri; partivamo io, mia sorella, Dennis e Aldo, che erano due miei compagni di classe, poi a volte c’era Roby Starco, che abitava di fianco a noi, e la sua fidanzata, Manuela, bella ma molto smorfiosa. Quasi sempre ci si andava a piedi, che da via Onorato Vigliani, dove abitavamo, era vicino e valeva la pena di un giro tra le infami case di via Artom e via fratelli Maistre, edilizia popolare, nebbia e gambe pronte a correre se ti sentivi seguito, correre oltre il limite dei tuoi polmoni. Altre volte ci accompagnava in macchina Marco, il fratello maggiore di Dennis, che aveva una fidanzata a Moncalieri ed era di strada; ricordo che aveva una Ford Fiesta nera e cattiva musica dance che usciva dall’autoradio e ricordo le sghignazzate sui sedili posteriori quando ci si stava anche in quattro e belli compressi. I miei diciotto anni.
D’un tratto Silvia smette di trastullare il suo cellulare e mi fa:
- Ti va un caffè?
- Ma si, certo.
Si alza e va in cucina, la sento trafficare per un po’ con tazzine, cucchiaini, e altro rumore metallico, la sento accendere il fornello e tornare in soggiorno.
Mi guarda con un mezzo sorriso e mi dice:
- Vi ho spaventati ieri sera?
- Stanotte vorrai dire! Era mezzanotte passata e io, Lisa e il bambino si dormiva già da un po’… ma più che altro ero spaventato dal tuo tono di voce, si capiva pochissimo ciò che dicevi, per un attimo pensavo che avessero arrestato te…
- Piangevo, ero troppo presa male, tu non sai che cosa vuole dire essere in una situazione così, stanotte poi avrò dormito una o due ore, se quello che ho fatto si può vuol dire dormire…
- Ero quasi lì lì per venire da te, ma non capivo neanche dov’eri, era chiaro solo che dovevo essere qui stamattina sul presto per portarti in ospedale.
- Grazie, grazie…
Silvia torna in cucina, dopo poco la caffettiera inizia a emettere un lieve sibilo, sento di nuovo un armeggiare di ceramiche; ritorna da me con le tazzine e me ne porge una piena di caffè fin quasi all’orlo, sa che lo voglio amaro e non dice altro, si siede di fronte a me e inizia sorseggiare il suo, ogni tanto mi scruta con i suoi grandi occhi cerchiati ma saldi.
Il caffè è ben caldo e lo assaporo a piccoli sorsi, non è che poi ne senta, tra l’altro, un gran bisogno di berlo, ma volevo creare un qualcosa in cui, Silvia ed io, potevamo specchiarci l’un l’altro e saldare quel momento tra noi, in modo un po’ più ben definito, offrirle fiducia e dirle, senza aprir bocca, che io non l’avrei abbandonata.
È poi lei a spezzare di nuovo il silenzio chiedendomi:
- Ma Lisa è preoccupata, ha detto qualcosa?
- Certo che lo è, ieri ha capito subito la situazione e voleva venire anche lei, ma non possiamo sballottare troppo il bambino…
- E ieri notte si è svegliato? L’ ho spaventato?
- Ma guarda… ha continuato a dormire, non si è accorto di nulla, è un ghiro quel nanetto!
- Ha una zia un po’ disgraziata…
Ma vedo mia sorella essere un po’ sollevata, è molto affezionata a Lisa e Alessio; ricordo che i primi tempi in cui io e la mia futura moglie ci frequentavamo, loro due non erano molto amiche, anzi c’era una sottile irrequietezza tra esse, forse data da un po’ di gelosia nei miei confronti da parte di entrambe, ma poi la gravidanza di Lisa e il matrimonio che organizzammo un po’ rapidamente le avvicinò di parecchio e le aiutò a superare le diffidenze che nutrivano reciprocamente.
- Vince.. -, fa mia sorella - ma tu che cosa pensi? Ce la farò con questo bambino in arrivo? E se Claudio non torna? E se vengono a prendere anche me, quei fottuti bastardi?
Nel dire ciò posa la sua tazzina sul tavolo, con una torsione rapida del busto, poi poggia i gomiti sulle sue ginocchia ed appoggia il viso sui pugni, si concentra su di me. So che vuol dire quando è così, so cosa cerca adesso.
Le dico:
- Non ci sono problemi, sono sicuro, Claudio tornerà presto, e comunque ci sono qui io per adesso.
- Non lo so… è che non sono abituata a stare senza di lui… e poi… io me lo sentivo che avremmo dovuto non tenerlo questo bambino.
- E daiiii…
- Ma come “e daiii…”, è stato facile per te? Non mi pare proprio. Anche tu e Lisa non eravate poi così risoluti, anzi all’inizio eravate ben paurosi dell’idea di fare una famiglia.
- Ma lo sai che era un discorso più legato ai parenti di Lisa, no? Sono così ligi alla religione e ai suoi dogmi che abbiamo dovuto aspettare un po’, prenderli per il verso giusto.
- Sarà, però io ho anche paura di assomigliare ai nostri di genitori…
- Accidenti! Noi due siamo diversi da loro, e lo sai bene, non tirare sempre fuori questa storia.
M’irrito molto su quest’argomento e Silvia lo sa bene, ma pare non avere troppo voglia di lasciar perdere, si alza in piedi, incrocia le braccia sotto il petto, si curva verso di me e ritorna all’attacco:
- Chi lo dice che io sarei diversa da nostra madre, o da papà? In fondo gli assomigliamo anche molto fisicamente.
È vero; entrambi abbiamo i forti tratti somatici mediterranei di nostra madre: la pelle olivastra, i folti capelli corvini e un taglio nei lineamenti del volto che ricordano, fatalmente, un antichissimo marinaio o soldato Greco che, presumibilmente, mise su famiglia dalle parti di Siracusa, la città dove nacque e crebbe nostra madre prima di emigrare a Torino, dove conobbe e sposò nostro padre e da cui fuggì con un amante, quando noi eravamo ben grandicelli; nostro padre non tentò neanche di rintracciarla, non so se per indifferenza o vergogna, fatto sta che non cercò nemmeno di tenerci legati a lui nei pochi anni che seguirono e in cui Silvia ed io rimanemmo nella nostra casa di origine.
Fondamentalmente, poi, tra noi due, ci differenziamo per i nostri occhi, o meglio per la luce che emanano, che è lo specchio della nostra anima. Pacato, languido e un po’ fatalista il mio, inquieto, pieni di curiosità e in cerca di risposte quello di Silvia; ed è a questi occhi che devo rispondere ora, con una fermezza che devo avere assolutamente.
- Noi non siamo come papà e mamma ti ripeto!
- Ah! E cosa ci scommetteresti, eh?
- Ma dai, abbandoneresti mai Claudio? O ti pare che io scapperei da Lisa e Alessio? E ti sembra che ci tuffiamo nella freddezza più completa come papà? Ma non vedi che già questa discussione ci rende distinti dai nostri genitori?
Sento che Silvia allenta già la sua tensione, si risiede di fronte a me e dice con più pacatezza:
- E che a volte ho paura come di aver saltato un qualche stadio dell’apprendimento sentimentale. Se papà e mamma dovevano essere i nostri maestri in questo, non si sono certo sbattuti molto…
- Capisco, ma mi pare che di persone intorno a noi comunque n’abbiamo avute molte e che ci abbiano aiutato a capire e imparare molto.
- Già… come nonna, no? Ti ricordi? Come diceva.. “eh se ci fossero meno terroni le strade sarebbero meno sporche!”. Mamma la odiava, e la posso anche capire, una volta tanto..
- Eh su… sii seria!
- Ma perché ti pare che abbia voglia di dire cazzate! Con un fidanzato in carcere e un figlio nella pancia?
- Voglio dire che non parlavo certo di nostra nonna, ma tutti i nostri amici, e anche di Claudio e Lisa.
- Ma se corressimo il pericolo di perderli, come sta succedendo ora…
- Non temere, Claudio non starà via molto, ne sono sicuro, presto si risolverà tutto, fidati!
- Certo… mi fiderò di sbirri e magistrati fascistoidi, e magari anche di qualche politicante che invocherà capestri e punizioni esemplari, e perché no? Andrò a farmi intervistare da qualche talk-show delle due e mezza del pomeriggio, ma fra un po’, quando il pancione sarà più visibile e magari farò più pietà e più ascolti. Pensa: “Oggi signore e signori parlerà la donna del terrorista arrestato in questi giorni, ci parlerà del loro amore scandaloso e del figlio che lei porta in grembo!!” Figo no?
Devo ammettere che sono un po’ perplesso e desideroso di finire lì la discussione, per ciò gli abbozzo, a mezza voce, un:
- Ma smettila…
Silvia capisce che comincia ad essere pesante e forse un po’ troppo autocommiserevole e si quieta un attimo, gira un po’ il capo a destra e a sinistra come se stesse cercando qualcosa e poi torna a guardarmi e a domandarmi:
- Ti hanno fatto storie a lavoro?
- Dici per essermi assentato stamane?
- Si.
- Beh.. sono un po’ di manica stretta nel concederti permessi, soprattutto se non gli dai preavviso… ma stamattina ho fatto chiamare Lisa, che gli dovrebbe dire che ho avuto un’emergenza di famiglia, sentendo lei, immagino che non dovrebbero fare molte polemiche.
- Perché?
- Mah.. se telefonassi io non sembrerebbe così grave e farebbero mille domande per farti cambiare idea; sentendo Lisa si sentirebbero, secondo me, più in soggezione, e si convincerebbero che ci sarebbe qualcosa di troppo delicato per fare troppe questioni.
- Aaaah!
Guardo l’ora e decido che si sta facendo un po’ tardi, mi alzo e riagguanto la giacca e faccio:
- Dai andiamo, se si arriva anche un po’ presto non fa nulla.
- Eh.. va bene.
Silvia si alza con un movimento pesante, va nella stanza da letto e ritorna subito indietro con un cappottone da anni quaranta, le faccio:
- Ma da dove l’hai tirato fuori quello?
E mentre se lo infila lento mi fa:
- Al Balòn, solo otto euro! Un affare vero?
- Se lo dici tu!
Gli sorrido.
Lei assume una finta aria seria, dice:
- Che vuoi dire…? Elegantone della famiglia…
- No, niente… ti terrà sicuramente caldo, spero solo che tu l’abbia spulciato almeno…
- Scemo!
Ma ormai ridacchia e va ad aprire la porta d’ingresso, usciamo tutti e due e Silvia si tira dietro di sé la maniglia.
Per le scale mi precede di un paio di gradini, non le vedo il viso, ma me la immagino pensierosa e concentrata; infatti, poco prima di arrivare al pian terreno si ferma, girandosi rapidamente, mi guarda seria, e chiede:
- Andrà tutto bene?
La domino in alto da un paio di scalini, le rispondo infallibile:
- Sì, garantito!
Rimane a fissarmi, poi facendosi delicatamente più distesa, dice:
- Hai ragione.
Nell’androne filtrano pallidi raggi, tra il gioco degli infissi del portone.
10 commenti:
ma dove trovi il tempo per scrivere?
rob.
:)
Allora in attesa di riniziare a leggerti, leggerò il racconto a puntate...... :p no, non è vero.. lo leggerò tutto d'un fiato come premio dopo il primo esame! :)
A presto
ma come si fa a lasciarti un commento privato da queste parti?
prima di partire scrivimi, devo dirti una cosa. stellaiasi@libero.it
buon viaggiooo!!!
Ti aspettiamo!
aspetto il tuo ritorno caro amico, e mi leggo cio' che mi manca data la mia lunga assenza...spero che il soggiorno/lavoro in terra ligure ti sia di aiuto per rilassarti e vivere la luce che in alcuni posti di quella regione è impagabile.... a presto davvero gio'
spero ti stia divertendo il più possibile, compatibilmente con il lavoro. E con il meteo...
X Rob: questo è un racconto di un paio di anni fa....
X Marea: il premio lo fai tu a me...
X Kinda: purtroppo vedo ora la tua richiesta, proverò a scriverti lo stesso stasera...
x Sorellecontro: Graziiie!!
X stellavale: ed infatti rieccomi!!
X Gio: fatti una bella lettura, sulle luci della Liguria hai ragione, per non parlare degli scorci spettacolari dall'Aurelia...
X Effimeramente: sono riuscito anche a divertirmi...
come ti è andata? racconta..
robibandito
bentornato marinaio mancato :) Sei più riposato o più stanco di prima?
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