Palomar sapeva benissimo quando erano le sei di mattina
Palomar sapeva benissimo quando erano le sei di mattina.
Il rumore del camion della nettezza urbana, che iniziava il giro del quartiere proprio sotto casa sua, era una sveglia inconfondibile.
Fosse stato un pendolare gli avrebbe fatto comodo. Ma lui lavorava di notte in una birreria e andava a letto non prima delle quattro.
Era arrivato in città da circa due anni, raggiungendo dei suoi parenti che lo avevano preceduto da ormai molto tempo; Palomar arrivava dall’Est e Torino gli parve un posto sicuro.
Lavorava come cuoco al “Manhattan”, un Pub sgangherato, che si trova tra la stazione ferroviaria “Dora”, e le fabbriche abbandonate della Savigliano. Nonostante questo era un posto conosciutissimo a Torino, poiché, nella sua cantina, ospita anche alcuni concerti di gruppi metal, punk, reggae… il lavoro comunque permetteva a Palomar di guadagnare quanto basta per vivere da solo in una mansarda a ridosso del quartiere multietnico di Porta Palazzo.
Le sue passioni sono sempre state due: dormire e leggere.
Leggeva romanzi. Autori italiani.
Per questo era chiamato Palomar; aveva imparato l’italiano leggendo, consumando e riconsumando “Palomar” di Italo Calvino.
Lo vedevi seduto alla fermata del bus, o in pausa nel retro cucina della birreria, o in fila alla posta per spedire un vaglia, con questo libro ben aperto davanti, il titolo in bell’evidenza, le labbra che pronunciano lente le parole su cui gli occhi scorrono attenti, una voce che è un sussurro, l’inflessione slava appena mormorata. Un dizionario sempre a portata di mano per confrontare parole, desinenze, verbi.
Non gli piacevano molto gli autori della sua terra.
Un rifiuto. Il tentativo di un oblio che si era imposto per non danzare eternamente con fantasmi dell’anima dall’alito osceno.
Forse perché dieci anni prima degli uomini in divisa da esercito regolare entrarono nella scuola dove Palomar studiava, presero lui, i suoi compagni, e i suoi insegnanti, li radunarono nel cortile e insultandoli e colpendoli con i calci dei loro fucili, li fecero assistere ad uno spettacolo che dimostrava il predominio di un’etnia sull’altra.
Palomar stava dalla parte sbagliata.
Un omino impaurito e docile radunava libri, registri, quaderni, cartelloni e altre piccole scartoffie nel centro dello spiazzo. I soldati gli urlavano di muoversi e non di rado gli tiravano ceffoni sul collo e calci nel culo, lui correva sgraziato, come un’interrotta spola tra le classi e la catasta che stava ammassando.
Era il preside.
Palomar era muto, solo gli occhi seguivano l’uomo nel suo filare, mai abbastanza rapido per gli uomini in verde; avrebbe voluto fermarlo, e urlargli di smetterla, di farla finita di essere il galoppino di quei merdosi, che così li vendeva tutti…. ma aveva la stessa paura di quell’uomo, la stessa impotenza. Dalle finestre della scuola si sentivano i rumori di sedie e tavoli divelti e fatti a pezzi, quei militari stavano facendo un lavoro di pulizia in grande stile; ridevano, ridevano molto mentre lo facevano.
Dopo un bel po’ il preside aveva finito e un’enorme pila di sapere era stata eretta nel centro del cortile; i militari, ironicamente, si complimentarono con lui e gli intimarono di raggiungere gli altri; si diresse verso i suoi alunni, era stanco e barcollava, ma per un uomo in verde non fu difficile appoggiargli la canna della pistola, di fabbricazione italiana, sulla nuca e fargli esplodere il collo in un attimo; cadde senza un lamento.
Palomar non sentiva più il cuore e neanche l’ossigeno entrargli nei polmoni, il freddo s’impadronì del suo respiro e del suo cervello, i militari diedero fuoco all’infame catasta e se n’andarono sui camion con cui erano venuti. Il corpo del preside giaceva a faccia in giù in un’enorme pozza di sangue, alcuni professori si avvicinarono a lui, scossero la testa, poi uno di loro, Veldim Vastic, insegnante d’inglese s’avvicinò a Palomar, che aveva il vuoto intorno a se e gli disse:
- Sono veramente dispiaciuto, Emir, per quello che hanno fatto a tuo padre, veramente!
Il rumore del camion della nettezza urbana, che iniziava il giro del quartiere proprio sotto casa sua, era una sveglia inconfondibile.
Fosse stato un pendolare gli avrebbe fatto comodo. Ma lui lavorava di notte in una birreria e andava a letto non prima delle quattro.
Era arrivato in città da circa due anni, raggiungendo dei suoi parenti che lo avevano preceduto da ormai molto tempo; Palomar arrivava dall’Est e Torino gli parve un posto sicuro.
Lavorava come cuoco al “Manhattan”, un Pub sgangherato, che si trova tra la stazione ferroviaria “Dora”, e le fabbriche abbandonate della Savigliano. Nonostante questo era un posto conosciutissimo a Torino, poiché, nella sua cantina, ospita anche alcuni concerti di gruppi metal, punk, reggae… il lavoro comunque permetteva a Palomar di guadagnare quanto basta per vivere da solo in una mansarda a ridosso del quartiere multietnico di Porta Palazzo.
Le sue passioni sono sempre state due: dormire e leggere.
Leggeva romanzi. Autori italiani.
Per questo era chiamato Palomar; aveva imparato l’italiano leggendo, consumando e riconsumando “Palomar” di Italo Calvino.
Lo vedevi seduto alla fermata del bus, o in pausa nel retro cucina della birreria, o in fila alla posta per spedire un vaglia, con questo libro ben aperto davanti, il titolo in bell’evidenza, le labbra che pronunciano lente le parole su cui gli occhi scorrono attenti, una voce che è un sussurro, l’inflessione slava appena mormorata. Un dizionario sempre a portata di mano per confrontare parole, desinenze, verbi.
Non gli piacevano molto gli autori della sua terra.
Un rifiuto. Il tentativo di un oblio che si era imposto per non danzare eternamente con fantasmi dell’anima dall’alito osceno.
Forse perché dieci anni prima degli uomini in divisa da esercito regolare entrarono nella scuola dove Palomar studiava, presero lui, i suoi compagni, e i suoi insegnanti, li radunarono nel cortile e insultandoli e colpendoli con i calci dei loro fucili, li fecero assistere ad uno spettacolo che dimostrava il predominio di un’etnia sull’altra.
Palomar stava dalla parte sbagliata.
Un omino impaurito e docile radunava libri, registri, quaderni, cartelloni e altre piccole scartoffie nel centro dello spiazzo. I soldati gli urlavano di muoversi e non di rado gli tiravano ceffoni sul collo e calci nel culo, lui correva sgraziato, come un’interrotta spola tra le classi e la catasta che stava ammassando.
Era il preside.
Palomar era muto, solo gli occhi seguivano l’uomo nel suo filare, mai abbastanza rapido per gli uomini in verde; avrebbe voluto fermarlo, e urlargli di smetterla, di farla finita di essere il galoppino di quei merdosi, che così li vendeva tutti…. ma aveva la stessa paura di quell’uomo, la stessa impotenza. Dalle finestre della scuola si sentivano i rumori di sedie e tavoli divelti e fatti a pezzi, quei militari stavano facendo un lavoro di pulizia in grande stile; ridevano, ridevano molto mentre lo facevano.
Dopo un bel po’ il preside aveva finito e un’enorme pila di sapere era stata eretta nel centro del cortile; i militari, ironicamente, si complimentarono con lui e gli intimarono di raggiungere gli altri; si diresse verso i suoi alunni, era stanco e barcollava, ma per un uomo in verde non fu difficile appoggiargli la canna della pistola, di fabbricazione italiana, sulla nuca e fargli esplodere il collo in un attimo; cadde senza un lamento.
Palomar non sentiva più il cuore e neanche l’ossigeno entrargli nei polmoni, il freddo s’impadronì del suo respiro e del suo cervello, i militari diedero fuoco all’infame catasta e se n’andarono sui camion con cui erano venuti. Il corpo del preside giaceva a faccia in giù in un’enorme pozza di sangue, alcuni professori si avvicinarono a lui, scossero la testa, poi uno di loro, Veldim Vastic, insegnante d’inglese s’avvicinò a Palomar, che aveva il vuoto intorno a se e gli disse:
- Sono veramente dispiaciuto, Emir, per quello che hanno fatto a tuo padre, veramente!
7 commenti:
spero non sia una storia vera.
wow, bel racconto.
x giuy: la follia del fondamentalismo etnico crea tragedia alle nostre porte di casa, e questo da secoli e secoli. Quella è una storia VERA!
x stone: wow, grazie.
purtroppo lo so...ma spero sempre che nessuno ci sia passato, che ci stia passando e che non ci debba passare! Mi è venuta la pelle d'oca!
una volta è ossessioanto dal calcio.. tra l'altro ho anche giocato vincendo tre coppe
terzino sinistro fluidificante
.. po mi sonodato una calmata...
rob.
X giuy: purtroppo ci passano e ci passeranno, ti consiglio di vedere il film "Il segreto di Esma", sul dopoguerra in Bosnia.
X rob: io sempre solo in porta... con i piedi sono scandaloso!
un finale che lacera il cuore e blocca il respiro.
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