16 giugno 2007

Cari bloggers, domani mattina parto, come ogni anno in questo periodo e per due settimane starò in Liguria; per lavoro ovviamente, precisamente per un "soggiorno estivo", come una colonia, per intenderci.
Di solito è un'occasione divertente, anche se molto faticosa, per stare insieme agli ospiti del nostro centro in un contesto più stimolante, rispetto al quotidiano.
Ci risentiremo dunque a inizio Luglio.
Nell'attesa vi lascio questo mio racconto, da leggere con calma dunque.
Vi abbraccio tutte e tutti.
Abbiate cura di voi, lavatevi i denti e guidate con prudenza.
Ciao.
Maurone
La mala vida

E’ un novembre che sento nelle ossa e vedo benissimo dal finestrino di questo vecchio tram; sono da un po’ di minuti seduto su un inospitale sedile di legno e acciaio, e ancora non riesco a scaldarmi, colpa del mezzo davvero datato e, ovviamente, della bassa temperatura.
Nonostante tutto, il vecchio 18 scorre rapido tra gli imponenti palazzi di via Madama Cristina, ne attraversa il mercato illuminato sotto le nuove avveniristiche arcate, che il mio occhio ancora non si è abituato e mi pare ancora di vedere la grigia e consunta copertura, con quella sensazione di sporco e fatica che avevo imparato a conoscere quando mia nonna mi ci portava a fare la spesa e mi diceva:
- Qui è più caro che a Porta Palazzo, ma ci son meno meridionali.
Dimenticando, forse per un attimo, che lo ero anch’io per metà; poi indicava un palazzo un po’ più in là e orgogliosa diceva:
- Vedi, lì è dov’è nato tuo padre cinquant’anni fa. E ho fatto tutta da sola con una levatrice. Tuo nonno stava in fabbrica e la sera è venuto con il vino e le paste fresche.
Mi ricordo che io e mia sorella chiedevamo spesso a nostro padre se ci poteva portare a vedere quella casa, che chissà cosa potevamo trovare lì tra quei muri spessi e le ringhiere arrugginite; ma nostro padre si rifiutò sempre, esprimendo con la sua tipica faccia torva e imbronciata un certo fastidio alla richiesta; nostra madre ci disse una volta che quello era uno di quei vecchi palazzi con il cesso sul ballatoio e ci abitavano solo famiglie povere.
Provo a scrollarmi un po’ sul sedile, ho un pesante giaccone di pelle nera e mi ci raccolgo dentro ben bene, per non sentire il precoce inverno, sbadiglio un paio di volte rapido, ora scorriamo via Accademia Albertina, stretta e leggermente in discesa, e penso che non potrò mai permettermi una casa in questa zona, e comunque Lisa, mia moglie, non sarebbe mai d’accordo; lasciare la periferia per il centro, credo, non le passi proprio per la testa, e comunque è proprio fuori dal caos che crediamo debba crescere nostro figlio Alessio.
Nonostante tutto, già scivoliamo per i giardini reali e vedo tra gli alberi una leggera condensa che fa da lenzuolo al brullo prato, poi in corso Regina Margherita mi accorgo che tra poco mi toccherà prenotare la discesa per raggiungere casa di Silvia, mia sorella.
Strano, Torino è una città in continuo ammodernamento e ricordo che percorrevo questo tratto già dieci anni fa per il mio primo lavoro, quando ero magazziniere in un colorificio di Corso Palermo, incredibilmente mi pare non sia cambiato niente, forse qualche extracomunitario in più in giro, qualche palazzo ridipinto, un certo numero di negozi più alla moda e tra le persone un’aria più precaria e meno cosciente, rispetto a quando ero un ventenne desideroso di una vita migliore.
Scendo in via Bologna e m’infilo in via Pedrotti, raggiungo l’isolato dove abita Silvia, essenziali case anni cinquanta, e giunto davanti al suo portone citofono con energia. Aspetto. Passano una decina di secondi. Riprovo. Altri dieci secondi. Comincia a salirmi una sottile preoccupazione, ma dopo poco risponde:
- Si, chi è?
- Silvia, sono Vince.
- Sali!
Ora mi sento più sveglio e rapido faccio i tre piani di scale fino all’alloggio di mia sorella, la porta è appena socchiusa ed entro scattante e leggermente goffo in casa. C’è una penombra data dalle serrande tirate su solo a metà, ma riconosco bene tutte le sagome dei mobili e delle sedie.
Silvia è in piedi in soggiorno vestita di una camicia di flanella e un paio di jeans un po’ lisi, rivolta tra le mani una felpa nera e verde che mia moglie gli regalò un paio d’anni fa per Natale.
- Eh.. sei arrivato?
- Sì certo, ma perché non rispondevi al citofono?
- Ero in bagno, la faccio anch’io la pipì.
- No, scusa.. è che mi ero preoccupato.
Sono anche un po’ imbarazzato, Silvia forse lo capisce, sorride, s’infila la felpa, mi si avvicina e mi si preme addosso, dice:
- Non ti preoccupare, non mi faccio fuori anche se ne ho forse le ragioni.
Non mi rassicura. Le chiedo:
- Che notizie hai di Claudio?
Silvia mi si scosta, guarda in basso, poi tirando su il viso fa:
- Ieri era a lavoro, stava finendo, son venuti i poliziotti e se lo son portati via; a me han chiamato quasi subito dei suoi colleghi più spaventati di me.
- L’ hai visto?
- No, non sono riuscito ancora a vederlo. Solo Dodo può vederlo e parlargli, e comunque lo stanno torchiando, quei bastardi….
- Dodo l’avvocato?
- Si… Federico “Dodo” Caligaris è l’avvocato storico di punk, anarchici, squatters e altra umanità varia, li difende praticamente gratis ai processi. Ma non pensavo che dovesse capitare anche a noi.
- Di cosa l’accusano di preciso?
- Bah.. banda armata, attività sovversiva… rapina.. terrorismo… non si capisce ancora, ma più che altro gli stanno chiedendo della scuola occupata e delle cose che si fanno lì dentro… ma Claudio non c’entra nulla; ora lavora e pensa a me e a nostro figlio.
Già, anche mia sorella aspetta un figlio, ma nonostante sia di tre mesi, il suo ventre è quasi impercettilmente più gonfio del normale.
Malgrado tutto provo a capirne un po’ di più di Claudio e il suo arresto:
- Senti, ma non mi pare che se gli chiedono della scuola sia molto grave, vedrai che in un paio di giorni si chiarisce. Dai…
Silvia aggrotta le sopracciglia e la vedo farsi prendere da una crescente e improvvisa ira.
- Ma la cosa è che lui non centra niente… che cazzo vogliono da noi, ci devono lasciare stare… staresti tranquillo e beato tu se ti venissero a prendere sul lavoro per rinchiuderti da qualche parte?
Mi accorgo che non ho dosato le parole in modo giusto e cerco di rientrare in una situazione più tranquilla:
- Ehi non volevo farti arrabbiare, lo sai..
- Eh si… certo.. ma è che proprio non dovevano farcela questa.. e poi adesso.. e oggi che ho l’ecografia in ospedale..
Di colpo lascia intravedere l’afflizione che la consuma da ieri pomeriggio, si siede su una sedia vicino al tavolo dove vedo i resti di un paio di scatole di biscotti, comincia a giochicchiare con le ciocche dei suoi capelli in modo nervoso, lo sguardo nervoso fisso davanti a sé.
Rimango fermo e in silenzio, ed ho ancora addosso il giaccone che ora mi fa sudare in modo evidente e fastidioso. Provo allora a dirgli qualcosa:
- Senti se ti devo accompagnare in ospedale forse è meglio che ci incamminiamo.
Lei sospira forte, guarda verso l’orologio sulla parete alla sua destra e dice:
- Son le otto da poco passate e ho l’appuntamento alle dieci, abbiamo tutto il tempo.
Dopodiché si sfila un telefonino dalla tasca dei pantaloni e inizia a scrivere un messaggio. Ho un pensiero celere e seccato che mi attraversa in un attimo la ragione, ma mi lascia subito; mi libero del giaccone e lo infilo sullo schienale di un’altra sedia, dall’altra parte del tavolo, e mi ci siedo ad aspettare qualcosa che non so.
Guardo intorno e tutto sommato non c’è una gran confusione, solo un paio di libri su un ripiano del mobiletto al mio fianco, un cd poggiato su un’altra sedia alla mia sinistra; lo prendo in mano, mentre Silvia continua rapida a scrivere caratteri sul display del suo cellulare, do un’occhiata alla copertina, è un live dei Mano Negra di una decina d’anni fa, cerco tra i titoli sul retro i ricordi di canzoni che avidamente ascoltavo alla radio in quegli anni: King Kong five, senor matanza, la mala vida….
Ho nella memoria i venerdì e i sabato sera al circolo “da Giau”, che si trovava, e si trova ancora adesso, al confine tra Mirafiori e Moncalieri; partivamo io, mia sorella, Dennis e Aldo, che erano due miei compagni di classe, poi a volte c’era Roby Starco, che abitava di fianco a noi, e la sua fidanzata, Manuela, bella ma molto smorfiosa. Quasi sempre ci si andava a piedi, che da via Onorato Vigliani, dove abitavamo, era vicino e valeva la pena di un giro tra le infami case di via Artom e via fratelli Maistre, edilizia popolare, nebbia e gambe pronte a correre se ti sentivi seguito, correre oltre il limite dei tuoi polmoni. Altre volte ci accompagnava in macchina Marco, il fratello maggiore di Dennis, che aveva una fidanzata a Moncalieri ed era di strada; ricordo che aveva una Ford Fiesta nera e cattiva musica dance che usciva dall’autoradio e ricordo le sghignazzate sui sedili posteriori quando ci si stava anche in quattro e belli compressi. I miei diciotto anni.
D’un tratto Silvia smette di trastullare il suo cellulare e mi fa:
- Ti va un caffè?
- Ma si, certo.
Si alza e va in cucina, la sento trafficare per un po’ con tazzine, cucchiaini, e altro rumore metallico, la sento accendere il fornello e tornare in soggiorno.
Mi guarda con un mezzo sorriso e mi dice:
- Vi ho spaventati ieri sera?
- Stanotte vorrai dire! Era mezzanotte passata e io, Lisa e il bambino si dormiva già da un po’… ma più che altro ero spaventato dal tuo tono di voce, si capiva pochissimo ciò che dicevi, per un attimo pensavo che avessero arrestato te…
- Piangevo, ero troppo presa male, tu non sai che cosa vuole dire essere in una situazione così, stanotte poi avrò dormito una o due ore, se quello che ho fatto si può vuol dire dormire…
- Ero quasi lì lì per venire da te, ma non capivo neanche dov’eri, era chiaro solo che dovevo essere qui stamattina sul presto per portarti in ospedale.
- Grazie, grazie…
Silvia torna in cucina, dopo poco la caffettiera inizia a emettere un lieve sibilo, sento di nuovo un armeggiare di ceramiche; ritorna da me con le tazzine e me ne porge una piena di caffè fin quasi all’orlo, sa che lo voglio amaro e non dice altro, si siede di fronte a me e inizia sorseggiare il suo, ogni tanto mi scruta con i suoi grandi occhi cerchiati ma saldi.
Il caffè è ben caldo e lo assaporo a piccoli sorsi, non è che poi ne senta, tra l’altro, un gran bisogno di berlo, ma volevo creare un qualcosa in cui, Silvia ed io, potevamo specchiarci l’un l’altro e saldare quel momento tra noi, in modo un po’ più ben definito, offrirle fiducia e dirle, senza aprir bocca, che io non l’avrei abbandonata.
È poi lei a spezzare di nuovo il silenzio chiedendomi:
- Ma Lisa è preoccupata, ha detto qualcosa?
- Certo che lo è, ieri ha capito subito la situazione e voleva venire anche lei, ma non possiamo sballottare troppo il bambino…
- E ieri notte si è svegliato? L’ ho spaventato?
- Ma guarda… ha continuato a dormire, non si è accorto di nulla, è un ghiro quel nanetto!
- Ha una zia un po’ disgraziata…
Ma vedo mia sorella essere un po’ sollevata, è molto affezionata a Lisa e Alessio; ricordo che i primi tempi in cui io e la mia futura moglie ci frequentavamo, loro due non erano molto amiche, anzi c’era una sottile irrequietezza tra esse, forse data da un po’ di gelosia nei miei confronti da parte di entrambe, ma poi la gravidanza di Lisa e il matrimonio che organizzammo un po’ rapidamente le avvicinò di parecchio e le aiutò a superare le diffidenze che nutrivano reciprocamente.
- Vince.. -, fa mia sorella - ma tu che cosa pensi? Ce la farò con questo bambino in arrivo? E se Claudio non torna? E se vengono a prendere anche me, quei fottuti bastardi?
Nel dire ciò posa la sua tazzina sul tavolo, con una torsione rapida del busto, poi poggia i gomiti sulle sue ginocchia ed appoggia il viso sui pugni, si concentra su di me. So che vuol dire quando è così, so cosa cerca adesso.
Le dico:
- Non ci sono problemi, sono sicuro, Claudio tornerà presto, e comunque ci sono qui io per adesso.
- Non lo so… è che non sono abituata a stare senza di lui… e poi… io me lo sentivo che avremmo dovuto non tenerlo questo bambino.
- E daiiii…
- Ma come “e daiii…”, è stato facile per te? Non mi pare proprio. Anche tu e Lisa non eravate poi così risoluti, anzi all’inizio eravate ben paurosi dell’idea di fare una famiglia.
- Ma lo sai che era un discorso più legato ai parenti di Lisa, no? Sono così ligi alla religione e ai suoi dogmi che abbiamo dovuto aspettare un po’, prenderli per il verso giusto.
- Sarà, però io ho anche paura di assomigliare ai nostri di genitori…
- Accidenti! Noi due siamo diversi da loro, e lo sai bene, non tirare sempre fuori questa storia.
M’irrito molto su quest’argomento e Silvia lo sa bene, ma pare non avere troppo voglia di lasciar perdere, si alza in piedi, incrocia le braccia sotto il petto, si curva verso di me e ritorna all’attacco:
- Chi lo dice che io sarei diversa da nostra madre, o da papà? In fondo gli assomigliamo anche molto fisicamente.
È vero; entrambi abbiamo i forti tratti somatici mediterranei di nostra madre: la pelle olivastra, i folti capelli corvini e un taglio nei lineamenti del volto che ricordano, fatalmente, un antichissimo marinaio o soldato Greco che, presumibilmente, mise su famiglia dalle parti di Siracusa, la città dove nacque e crebbe nostra madre prima di emigrare a Torino, dove conobbe e sposò nostro padre e da cui fuggì con un amante, quando noi eravamo ben grandicelli; nostro padre non tentò neanche di rintracciarla, non so se per indifferenza o vergogna, fatto sta che non cercò nemmeno di tenerci legati a lui nei pochi anni che seguirono e in cui Silvia ed io rimanemmo nella nostra casa di origine.
Fondamentalmente, poi, tra noi due, ci differenziamo per i nostri occhi, o meglio per la luce che emanano, che è lo specchio della nostra anima. Pacato, languido e un po’ fatalista il mio, inquieto, pieni di curiosità e in cerca di risposte quello di Silvia; ed è a questi occhi che devo rispondere ora, con una fermezza che devo avere assolutamente.
- Noi non siamo come papà e mamma ti ripeto!
- Ah! E cosa ci scommetteresti, eh?
- Ma dai, abbandoneresti mai Claudio? O ti pare che io scapperei da Lisa e Alessio? E ti sembra che ci tuffiamo nella freddezza più completa come papà? Ma non vedi che già questa discussione ci rende distinti dai nostri genitori?
Sento che Silvia allenta già la sua tensione, si risiede di fronte a me e dice con più pacatezza:
- E che a volte ho paura come di aver saltato un qualche stadio dell’apprendimento sentimentale. Se papà e mamma dovevano essere i nostri maestri in questo, non si sono certo sbattuti molto…
- Capisco, ma mi pare che di persone intorno a noi comunque n’abbiamo avute molte e che ci abbiano aiutato a capire e imparare molto.
- Già… come nonna, no? Ti ricordi? Come diceva.. “eh se ci fossero meno terroni le strade sarebbero meno sporche!”. Mamma la odiava, e la posso anche capire, una volta tanto..
- Eh su… sii seria!
- Ma perché ti pare che abbia voglia di dire cazzate! Con un fidanzato in carcere e un figlio nella pancia?
- Voglio dire che non parlavo certo di nostra nonna, ma tutti i nostri amici, e anche di Claudio e Lisa.
- Ma se corressimo il pericolo di perderli, come sta succedendo ora…
- Non temere, Claudio non starà via molto, ne sono sicuro, presto si risolverà tutto, fidati!
- Certo… mi fiderò di sbirri e magistrati fascistoidi, e magari anche di qualche politicante che invocherà capestri e punizioni esemplari, e perché no? Andrò a farmi intervistare da qualche talk-show delle due e mezza del pomeriggio, ma fra un po’, quando il pancione sarà più visibile e magari farò più pietà e più ascolti. Pensa: “Oggi signore e signori parlerà la donna del terrorista arrestato in questi giorni, ci parlerà del loro amore scandaloso e del figlio che lei porta in grembo!!” Figo no?
Devo ammettere che sono un po’ perplesso e desideroso di finire lì la discussione, per ciò gli abbozzo, a mezza voce, un:
- Ma smettila…
Silvia capisce che comincia ad essere pesante e forse un po’ troppo autocommiserevole e si quieta un attimo, gira un po’ il capo a destra e a sinistra come se stesse cercando qualcosa e poi torna a guardarmi e a domandarmi:
- Ti hanno fatto storie a lavoro?
- Dici per essermi assentato stamane?
- Si.
- Beh.. sono un po’ di manica stretta nel concederti permessi, soprattutto se non gli dai preavviso… ma stamattina ho fatto chiamare Lisa, che gli dovrebbe dire che ho avuto un’emergenza di famiglia, sentendo lei, immagino che non dovrebbero fare molte polemiche.
- Perché?
- Mah.. se telefonassi io non sembrerebbe così grave e farebbero mille domande per farti cambiare idea; sentendo Lisa si sentirebbero, secondo me, più in soggezione, e si convincerebbero che ci sarebbe qualcosa di troppo delicato per fare troppe questioni.
- Aaaah!
Guardo l’ora e decido che si sta facendo un po’ tardi, mi alzo e riagguanto la giacca e faccio:
- Dai andiamo, se si arriva anche un po’ presto non fa nulla.
- Eh.. va bene.
Silvia si alza con un movimento pesante, va nella stanza da letto e ritorna subito indietro con un cappottone da anni quaranta, le faccio:
- Ma da dove l’hai tirato fuori quello?
E mentre se lo infila lento mi fa:
- Al Balòn, solo otto euro! Un affare vero?
- Se lo dici tu!
Gli sorrido.
Lei assume una finta aria seria, dice:
- Che vuoi dire…? Elegantone della famiglia…
- No, niente… ti terrà sicuramente caldo, spero solo che tu l’abbia spulciato almeno…
- Scemo!
Ma ormai ridacchia e va ad aprire la porta d’ingresso, usciamo tutti e due e Silvia si tira dietro di sé la maniglia.
Per le scale mi precede di un paio di gradini, non le vedo il viso, ma me la immagino pensierosa e concentrata; infatti, poco prima di arrivare al pian terreno si ferma, girandosi rapidamente, mi guarda seria, e chiede:
- Andrà tutto bene?
La domino in alto da un paio di scalini, le rispondo infallibile:
- Sì, garantito!
Rimane a fissarmi, poi facendosi delicatamente più distesa, dice:
- Hai ragione.
Nell’androne filtrano pallidi raggi, tra il gioco degli infissi del portone.

13 giugno 2007

F.d.A. (in assenza di)

Certe cose mi mancano da morire.
Anni ’70 (fine) / ’80 (prima metà). Tipo il pane, pomodoro e olio che mia mamma mi preparava come colazione quando ero piccolo, altro che i cornflakes col latte che molti miei compagni di classe dichiaravano di consumare al mattino, perché avevano mamme moderne e consumatrici di tivvì. Oppure ho nostalgia di Mazinga e Ufo Robot. Io non ne perdevo neanche una puntata, ma non per passione, e che veramente non avevo niente altro da fare, e nessuno con cui giocare, io non avevo giochi “fighi” e neanche di prima mano, e questo mi rendeva spesso un escluso. Bastardi compagni di classe delle elementari e medie figli di papà, che peste vi colga! Per fortuna le cose sono poi migliorate, ho conosciuto amici veri, alcuni di loro ancora sono presenti nella mia vita.
Anni ’80 (seconda metà) / ’90 (prima metà). Mi mancano terribilmente le partite a pallone sul campetto di cemento, nel giardino di fronte a casa mia, specialmente quelle del sabato pomeriggio perché erano quelle più combattute, e dovevo confrontarmi con i migliori piedi del mio circondario, ed erano per lo più ragazzi più grandi, dovevo sudarmela la possibilità di giocare con loro, ma quasi sempre ce la facevo, non ricordo neanche più bene quanti pantaloni ho ridotto a brandelli su quel campetto….

Poi dovrei parlare delle persone che mi mancano, ma sarebbe argomento lungo, non so da chi iniziare e comunque non riuscirei a fare un nudo elenco, di tutti dovrei raccontare la storia, come è successo per Flavio, il mio amico dell’università di cui ho parlato ad inizio maggio, ma non oggi.
Mi manca Fabrizio de Andrè. Ecco, magari di lui lo posso dire che mi manca. Mi manca passare per le strade di Torino e non vedere mai un manifesto che indica la data del suo prossimo concerto in città. Mi manca sapere che ne pensa dei fatti del quotidiano, mi manca scorgere il suo sorriso obliquo. Chissà se gli hanno detto che il suo Genoa è tornato in serie A. Ma se Dio esiste, vedendolo, spero almeno che lo abbia baciato alla fronte, che tra libertari ci si dovrebbe capire.


Questa che segue è una intervista apparsa su la “DOMENICA DEL CORRIERE” nel 1974.

Milano.
Quando l'impresario Mario Ber­nardini, proprietario della «Bus­sola», il locale più famoso della Versilia ha detto a Fabrizio De André, cantautore: « Vanno bene sessanta mi­lioni sull'unghia per quindici sere di spettacolo? », Fabrizio - che è geno­vese e dovrebbe quindi non essere insensibile al fascino del denaro — ha alzato con la mano il ciuffo che gli nasconde perennemente l'occhio sinistro ed e rimasto un attimo fermo co­me una statua. Poi, secco, ha risposto semplicemente « no ». Ora, davanti a me, racconta questo che ormai è un aneddoto scuotendo il capo come uno scolaro testardo, dice: « Ormai do­vrebbero averla capita: suor Fabrizia non si spoglia ». Fabrizio De André, il più adorato cantore nella nostra generazione (ogni longplaying almeno centomila copie per un giro di trecen­to milioni) è in una sala d'incisione milanese: giacchetta di lana beige, la camicia azzurra spiegazzata, la barba lunga e l'immancabile whisky in ma­no. « Ne vuoi uno? » Me lo versa personalmente con una cortesia inna­ta, non formale. Di amici Fabrizio ne ha pochissimi, gli « altri » non li vuoi conoscere. « Per colpa mia: temo non mi capiscano: è così difficile, oggi. »
L'ultimo longplaying di Fabrizio « Storia di un impiegato » è ai vertici delle classifiche, ha già venduto più di 120 mila copie, sarà il successo dell'anno. In sala, ora, lui sta incidendo un altro longplaying. Ma non e una nuo­va storia che gli è nata dentro (« Quella si vedrà, non è neppure abbozza­ta ») ma un disco antologico con al­cune sue canzoni conosciute più tre pezzi di Brassens. « E' snervante, sai, questo lavoro in sala. »
Snervante soprattutto per un uomo come lui, perfezionista, introverso. Sta provando e riprovando dalle nove del mattino e, adesso, sono le nove di sera. Mi prende sottobraccio: « Vieni, an­diamo nel mio albergo, è proprio qui di fronte. Non ho fame, dopo sessan­ta sigarette, ma bisogna mandar giù qualcosa ».
Dobbiamo attraversare piazza Cavour, solo pochi passi, ma il traffico e fermo, bloccato da una manifestazione. Accelera il passo: « Guardare e vigliacco, inutile: a queste cose o si partecipa o niente. Andiamo ».
A tavola ordina una tartara che condisce da solo. Tratta la carne sgar­batamente, la rivolta in fretta: per lui è solo un boccone per nutrirsi, una medicina. Il vino rosso di marca, scel­to con cura, l'assaggia con amore.

Fabrizio: forse non ti rendi conto della dinamite che hai dentro, di quanto potresti essere più importante per i giovani. Non ti senti sulle spalle questa responsabilità? Perché non cer­chi di comunicare anche su un palco­scenico. Potresti farlo gratis, non sa­rebbe uno spogliarello commerciale.
Lascia il boccone a metà, mi guar­da fisso ma con lo sguardo incerto di chi si confronta dentro continuamente e non è mai sicuro di quello che dice. « Fossi cosciente d'essere un Bob Dylan (quello di prima, non quello di oggi) fossi cosciente di essere una vo­ce utile davvero, con qualcosa da di­re veramente, non avrei dubbi: me ne andrei in giro a cantare subito. »

Invece sei sempre pieno di dubbi.
Mi fissa come fossi matto. « Sono tutto un dubbio perenne: la "Storia di un impiegato" l'abbiamo scritta, io, Bentivoglio, Piovani, in un anno e mezzo tormentatissimo e quando è uscita volevo bruciare il disco. Era la prima volta che mi dichiaravo po­liticamente e so di aver usato un lin­guaggio troppo oscuro, difficile so di non essere riuscito a spiegarmi. »

Ma hai anche scritto versi come: « Quando in anticipo sul tuo stupore verranno a chiederti del nostro amo­re... Una sintesi chiarissima... ».
« E' il momento che preferisco ma è uno sprazzo... »

Raccontamela allora con le tue pa­role questa storia...
Chiama il cameriere, chiede della minerale (« Per prendere fiato, fare una pausa dopo tanto alcool ») e ri­prende: « Un impiegato, un colletto bianco che non appartiene a nessuna classe, non al capitalismo, non al pro­letariato, ispirato dal maggio francese cerca il riscatto con un gesto da anar­chico individualista: una bomba. Fi­nisce in prigione, figlio scartato della borghesia e qui capisce, finalmente, molte cose: capisce soprattutto che la rivolta individuale è solo un fatto este­tico, che è necessaria un'azione collet­tiva per cercare di cambiare le cose. La conclusione come vedi non è ama­ra, è positiva. E riguarda me... ».

Nel senso...
« Nel senso che io non credo più all'individualismo ma spero solo nel collettivismo... »

E ti sei iscritto a un partito di si­nistra?
Mi guarda attraverso il bicchiere che ha vuotato lentamente, sorseggian­do: « No, proprio no: per me il di­scorso collettivo abbraccia sei, sette persone al massimo... ».

Fabrizio tu sei un prodotto della borghesia, con padre ricco, bella casa a Genova, moglie di «taglio classico», figlio di undici anni. Spiegami le tue contraddizioni: il figlio lo mandi a una scuola privata, retta da religiosi...
« La famiglia, per un tormentato come me è un porto, guai non potessi approdarvi ogni tanto. L'educazione del figlio l'ho delegata a mia moglie anche se, sul problema scuola, mi so­no angosciato molto. Poi mi sono fat­to una convinzione: nella scuola pub­blica mio figlio si scontrerebbe con la società reale e con le sue contraddizioni, è vero, ma nella scuola privata, dove può studiare più tranquillamen­te, gli forniscono tutti quegli strumen­ti che gli saranno necessari per soprav­vivere in un mondo che diventerà un ordinato nazismo, dove lui dovrà po­ter combattere ad armi pari per so­pravvivere. »

Sei estremamente pessimista...
« Certamente: lottiamo con i nostri strumenti ma sono sprazzi: il maggio francese passa, i golpe restano, si moltiplicano, trionfano: l'avvenire è dei golpisti... »

Giorgio Gaber ha detto che tu usi un linguaggio da liceale che si è fer­mato a Dante, che fai dei bei temini, ma non si riesce a capire se sei libe­rale o extraparlamentare.
Fabrizio stavolta prende tempo, sor­seggia con calma il caffè, poi final­mente...
« Queste polemiche mi seccano ter­ribilmente e ho rifiutato sino ad oggi di rispondere: con tutti. Io stimo e ammiro Giorgio e mi spiace che lui, che si dichiara comunista, sia andato a raccontare queste cose al primo giornalista che ha incontrato. Poteva te­lefonarmi, farmi le sue osservazioni: ne avremmo discusso, ci saremmo con­frontati. Così, invece, ha svilito an­cora di più un mondo già tanto criti­cato. La canzone è considerata un’arte minore e i livori di Gaber non le fanno bene. Montale non ha mai polemizzato con Ungaretti. Io invece non considero la canzone un'arte mi­nore: Orfeo parlava con la lira, Pindaro con la cetra, Cecco Angiolieri aveva degli "uditori" perché s'espri­meva accompagnandosi col liuto. Non esistono arti minori ma artisti minori o maggiori. Bob Dylan o Brassens hanno significato qualcosa di più di certi crostaroli spacciati per gran pit­tori. Ecco perché non voglio rispon­dere a Giorgio, polemizzare. »
Chiacchierare gli costa sempre fa­tica, adesso poi è veramente stanco. Cerca di distrarsi parlando di calcio. E' tifosissimo del Genoa che appena può segue in trasferta.
« Le nostre passioni hanno delle origini imprevedibili, anche nel cal­cio. Durante la guerra ero sfollato in Piemonte e per me Genova era un mito, qualcosa di straordinario. Quan­do a cinque anni la vidi per la prima volta me ne innamorai subito, tremen­damente e alla prima partita della mia vita, Genoa-Sampierdarenese, sposai subito la squadra che portava il no­me della mia città. Un amore che non ho mai tradito, il più solido della mia vita fatta di contraddizioni continue. E' strana veramente la vita. E ora ti prego, vado a buttarmi sul letto: do­mattina devo tornare in sala d'inci­sione. Mi prenderò tanti tranquillan­ti... Come? E' inutile: ho già sonno così? Dici? Va bene li prenderò alle tre di notte quando mi sveglierò; co­me sempre, immancabilmente. Vammi a capire. »

08 giugno 2007

Una pernacchia seppellirà Giorgino



E alla fine è arrivato. O meglio, mentre scrivo, sta arrivando. Parlo di Giorgino Bush.
Accolto col tappeto rosso, e ci mancherebbe è lui il padrone di qui, ed omaggiato da tutti i valvassori e valvassini di stato, sta per compiere la sua visita alla città eterna, che, agghindata di tutto punto e barricata peggio che durante i bombardamenti del ’43, accoglierà deferente colui che più di tutti ha contribuito all’import- export della democrazia occidentale.
In questi due giorni di soggiorno, Giorgino Bush, passerà in rassegna tutti i suoi luogotenenti, stringerà molte mani e farà la conoscenza di politici ed amministratori, compreso Fausto Bertinotti, che si presenterà con la livrea da gran parata, la quale consiste nell’esposizione sulla sua giacca di tweed della spilletta della pace, di quella in memoria dell’11 Settembre, di quella per il riconoscimento dello stato di Palestina, di quella per solidarizzare con gli ebrei vittime della shoah, di quella del Milan (regalo di Belusconi), di quella della Sinistra Europea, di quella di Mazinga, di quella del Gay Pride, di quella con lo smile, di quella dei Rolling Stones. Conciato così sembrerà un vecchio generale della guerra del ‘15-’18, ma che non si dica che lui non è coerente.
Ma per prima cosa incontrerà il nostro presidente della Repubblica, che da buon volpone napoletano, cercherà di vendergli il Colosseo. Fatica inutile. Giorgino è sveglio, lo sa benissimo che non sarebbe un affare, lì dentro le misure non sono regolamentari per farci un campo da football americano.
Poi una visita speciale sarà dedicata alla comunità di Sant’Egidio e al Papa. Lui ci va a nozze con il mondo Cattolico, in fondo c’è da essergli grati, in questi sette anni ce ne ha mandati parecchie di persone a fare conoscenza col Padreterno. Ma lui si definisce un uomo ispirato dalla Bibbia, certo fa effetto vedere una persona così pia accompagnato da 8000 mila forze dell’ordine, e da diversi aerei ed elicotteri armati per intervenire a bassa quota…
Inoltre domani Roma attenderà qualche decina di migliaia di manifestanti, tra pacifisti e antagonisti, che in due distinte manifestazioni daranno un altro tipo di benvenuto a Giorgino, rivelandogli di essere una persona non gradita, nonostante le forze politiche (almeno quelle di sinistra intendo) e sindacali si siano piuttosto defilati da parteciparvi. Per loro ho un suggerimento, accogliete Giorgino con 10, 100, 1000 pernacchie. Non servirà a molto, ma magari tutta sta corrente gli farà venire un raffredore. E chi lo sa che da cosa non nasca cosa…..

04 giugno 2007

Cugini

Non ricordo bene quando successe. Se per effetto delle parole dei miei genitori, magari una raccomandazione, o per via di un mio ragionamento personale. O forse l’avevo sempre saputo, ma non me ne fregava nulla fino a quel giorno, un giorno in cui magari lei mi aveva fatto arrabbiare perché non voleva giocare con me o perché piangeva più del solito. Dovevo comunque avere cinque o sei anni, o giù di lì, non prima e non più tardi. La vedevo solo durante le vacanze, quando con i miei genitori, scendevamo nella Puglia assolata, stuzzicante, spigolosa e rossastra della provincia di Taranto. Andavamo dai miei nonni paterni. Per me c’erano noiose visite per salutare i parenti, interminabili viaggi per andare al mare, lunghi pranzi a base di cibi gustosi, corse dietro ai gatti nel giardino dei miei nonni, vento in faccia e giornali infilati sotto la camicia mentre con mio padre andavamo in motorino a raccogliere pigne nella vicina pineta, scherzi del genere chiudere mio nonno nello sgabuzzino degli attrezzi, e poi giocare con Maddalena. Mia cugina Maddalena. Lei era più grande di me di un anno. Ma eravamo da sempre alti uguali. Aveva capelli crespi e, cosa per me strana, pelle molto bianca, nonostante vivesse in un clima mediterraneo. Giocavamo con la sabbia se eravamo al mare, con le macchinine se eravamo a casa dei miei nonni, stavamo molto insieme. Si tratteneva molto a casa dei nostri nonni, lei, e i miei zii, abitavano in un vicolo non lontano da casa dei miei nonni, vicino al centro del paese, che non era il centro storico, quello era a metà strada tra le due case, ed era un avvallamento formato da case bianche, costruite disordinatamente nel tufo, una sull’altra senza una logica che potesse dare una qualsiasi spiegazione razionale, povere grotte con porte e finestre di legno. Casa dei miei nonni invece era più moderna, con un grande corridoio che sfociava nella sala da pranzo ed in due più piccole ambienti che erano una cucina ed un bagno, a lato del corridoio le stanze da letto, grandi ed arredate con mobili lucidi e robusti. Casa dei miei zii, era piccola, sembrava un unico corridoio stretto, dove erano ricavati gli ambienti angusti e quasi per nulla illuminati. Maddalena era silenziosa per la maggior parte della giornata, interrompeva il suo mutismo, solo per improvvisi pianti, ricco di strepiti e gesti convulsi, spesso si buttava per terra e si mordeva le labbra con infuriata foga. Ecco. Probabilmente in una di queste occasioni che capii, o mi fecero capire che Maddalena era, come dicevano i miei parenti, malata di mente. “Malata che può guarire?”, chiedevo io. “Certo che guarirà”, diceva mia nonna, “guarirà e poi si sposerà!”. Beh, non c’era da preoccuparsi allora, pensavo io. Allora perché mia madre e mio padre guardavano così sconsolati loro nipote?
Passarono gli anni. Crescendo capii, che Maddalena non sarebbe mai guarita, che non si sarebbe mai sposata, ed anche che non avrebbe mai imparato a leggere, scrivere, contare, che non mi avrebbe mai aiutato nei compiti, che non avrebbe mai imparato a parlare senza biascicare le parole.
Per tutti sarebbe rimasta una bambina, goffa e timida, gentile ed imbarazzata, ed imbarazzante, per il resto della vita. Chiusa nella sua famiglia premurosa e impreparata nello stesso tempo ad accogliere una persona schiettamente diversa.
Per me, è solo mia cugina. La mia cugina diventata donna, a suo modo. Ed anch’io sono diventato uomo a mio modo. Ed allora che differenza fa?