15 ottobre 2007

Ricordando Gigi

Luigi Meroni (Como, 24 febbraio 1943 - Torino, 15 Ottobre 1967)

Calciatore (145 partite in Serie A realizzando ventinove reti) , poeta, pittore, libertario... farfalla granata


"Era un simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti »
(Gianni Brera nel necrologio di Gigi Meroni)

12 ottobre 2007

Palomar sapeva benissimo quando erano le sei di mattina
Palomar sapeva benissimo quando erano le sei di mattina.
Il rumore del camion della nettezza urbana, che iniziava il giro del quartiere proprio sotto casa sua, era una sveglia inconfondibile.
Fosse stato un pendolare gli avrebbe fatto comodo. Ma lui lavorava di notte in una birreria e andava a letto non prima delle quattro.
Era arrivato in città da circa due anni, raggiungendo dei suoi parenti che lo avevano preceduto da ormai molto tempo; Palomar arrivava dall’Est e Torino gli parve un posto sicuro.
Lavorava come cuoco al “Manhattan”, un Pub sgangherato, che si trova tra la stazione ferroviaria “Dora”, e le fabbriche abbandonate della Savigliano. Nonostante questo era un posto conosciutissimo a Torino, poiché, nella sua cantina, ospita anche alcuni concerti di gruppi metal, punk, reggae… il lavoro comunque permetteva a Palomar di guadagnare quanto basta per vivere da solo in una mansarda a ridosso del quartiere multietnico di Porta Palazzo.
Le sue passioni sono sempre state due: dormire e leggere.
Leggeva romanzi. Autori italiani.
Per questo era chiamato Palomar; aveva imparato l’italiano leggendo, consumando e riconsumando “Palomar” di Italo Calvino.
Lo vedevi seduto alla fermata del bus, o in pausa nel retro cucina della birreria, o in fila alla posta per spedire un vaglia, con questo libro ben aperto davanti, il titolo in bell’evidenza, le labbra che pronunciano lente le parole su cui gli occhi scorrono attenti, una voce che è un sussurro, l’inflessione slava appena mormorata. Un dizionario sempre a portata di mano per confrontare parole, desinenze, verbi.
Non gli piacevano molto gli autori della sua terra.
Un rifiuto. Il tentativo di un oblio che si era imposto per non danzare eternamente con fantasmi dell’anima dall’alito osceno.

Forse perché dieci anni prima degli uomini in divisa da esercito regolare entrarono nella scuola dove Palomar studiava, presero lui, i suoi compagni, e i suoi insegnanti, li radunarono nel cortile e insultandoli e colpendoli con i calci dei loro fucili, li fecero assistere ad uno spettacolo che dimostrava il predominio di un’etnia sull’altra.
Palomar stava dalla parte sbagliata.
Un omino impaurito e docile radunava libri, registri, quaderni, cartelloni e altre piccole scartoffie nel centro dello spiazzo. I soldati gli urlavano di muoversi e non di rado gli tiravano ceffoni sul collo e calci nel culo, lui correva sgraziato, come un’interrotta spola tra le classi e la catasta che stava ammassando.
Era il preside.
Palomar era muto, solo gli occhi seguivano l’uomo nel suo filare, mai abbastanza rapido per gli uomini in verde; avrebbe voluto fermarlo, e urlargli di smetterla, di farla finita di essere il galoppino di quei merdosi, che così li vendeva tutti…. ma aveva la stessa paura di quell’uomo, la stessa impotenza. Dalle finestre della scuola si sentivano i rumori di sedie e tavoli divelti e fatti a pezzi, quei militari stavano facendo un lavoro di pulizia in grande stile; ridevano, ridevano molto mentre lo facevano.
Dopo un bel po’ il preside aveva finito e un’enorme pila di sapere era stata eretta nel centro del cortile; i militari, ironicamente, si complimentarono con lui e gli intimarono di raggiungere gli altri; si diresse verso i suoi alunni, era stanco e barcollava, ma per un uomo in verde non fu difficile appoggiargli la canna della pistola, di fabbricazione italiana, sulla nuca e fargli esplodere il collo in un attimo; cadde senza un lamento.
Palomar non sentiva più il cuore e neanche l’ossigeno entrargli nei polmoni, il freddo s’impadronì del suo respiro e del suo cervello, i militari diedero fuoco all’infame catasta e se n’andarono sui camion con cui erano venuti. Il corpo del preside giaceva a faccia in giù in un’enorme pozza di sangue, alcuni professori si avvicinarono a lui, scossero la testa, poi uno di loro, Veldim Vastic, insegnante d’inglese s’avvicinò a Palomar, che aveva il vuoto intorno a se e gli disse:
- Sono veramente dispiaciuto, Emir, per quello che hanno fatto a tuo padre, veramente!

09 ottobre 2007

Sulla pelle viva

Ci sono tragedie come quelle dell’11 Settembre 2001 a New York, che volenti o no, rimarranno scolpiti nelle nostre memorie e nelle discussioni di attualità, magari solo perché ce lo dicono i mass-media.
Ed invece altre rimarranno isolate nella coscienza di pochi. Di troppi pochi.
Come la storia del “grande Vajont”, la sua odissea, durata oltre 20 anni, e conclusasi in tre minuti di apocalisse, tra le 22.39 e le 22.42 del 9 Ottobre 1963, causando l’olocausto di quasi 2000 persone.



Una madre: "Avevo spento da poco la luce quando avvertii la terra tremare; mi portai dietro le imposte e sentii un forte vento e vidi le luci e le strade emanare un intenso bagliore e poi spegnersi. Mi precipitai verso il letto e afferrai i due bambini che dormivano, li avvinsi a me. Sentii l'acqua irrompere, sballottarmi e mi trovai sola al campo sportivo su un pino ove l'acqua mi aveva scagliato. Il piccolo è stato ritrovato nei pressi della Rossa di Belluno, mentre la bambina nei pressi di casa mia. I miei genitori abitavano con me e sono stati trovati: mia madre al campo sportivo e mio padre a Trichiana".



Un professore: "Siamo arrivati a Longarone........che soltanto da un'ora il Toc era calato nel lago al di la della diga.......... Poca la gente e gli automezzi..........Dei vigili del fuoco con qualche ambulanza, una jeep dei carabinieri, il furgone della polizia stradale. Su questo un milite gridava ostinato, nel microfono, l'identico messaggio: che suonassero le campane di tutti gli abitati, che accorressero tutti, presto, presto, per l'amor di Dio. Di Longarone non erano rimaste che macerie e i feriti dovevano contarsi a centinaia. Furono lo sgomento e il concitato esprimersi di quell'agente ad offrirci l'intuizione della tragedia.......... Ci accorgemmo allora del biancore che vagolava entro la conca oscura del Piave, del vento che tirava, come impedito da nessun ostacolo, del buio nel quale stava immerso lo spazio per solito animato dalle luci del paese ci accodammo a due della stradale.......... Procedevamo sul legname, la melma, i calcinacci........... Entravamo ogni tanto nelle abitazioni alzando grida acute. Nessuno rispondeva. Lo scorrere del faro svelava stanze vuote, spogliate da ogni masserizia. Tutte coi pavimenti colmi di terra limacciosa, le pareti schizzate d'acqua e fango nero....... Intanto, qualcuno che si avvicinava, ci urlò che nelle case era inutile cercare. Che si corresse avanti, avanti, dove i feriti aspettavano d'essere aiutati........ Oltrepassato l'immobile del cinema, di botto cessarono le file delle costruzioni. E ci trovammo davanti il vuoto: un vuoto oscuro ed irreale. Fu un attimo percepire che bisognava credere nella sparizione del paese.........."



Il disastro del Vajont (chiamato anche tragedia, strage o catastrofe del Vajont) avvenne il 9 ottobre 1963 alle ore 22.39. Fu causata da una frana, lunga 2 km di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e terra, staccatasi dal monte Toc (che in friulano, contrazione di "patoc", significa "marcio", mentre in veneto significa "pezzo") e precipitata nel bacino artificiale creato dalla diga del Vajont, La frana arrivò a valle, generando una scossa sismica e riempiendo il bacino artificiale costruita dalla SADE. L'impatto con l'acqua causò due ondate: la prima si schiantò contro la montagna, la seconda (di circa 50 milioni di metri cubi di acqua) scavalcò la diga precipitando verso la valle e travolgendo Longarone e altri paesi limitrofi, causando la completa distruzione della città e la morte di più di 1917 persone di cui 1450 a Longarone, 109 a Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 originarie di altri comuni; vengono inoltre danneggiati gli abitati di Codissago, Pirago, Faè e Rivalta.
Il processo iniziò nel 1968 (l'ingegner Pancini - uno degli imputati - si suicidò alla vigilia del processo) e si concluse in primo grado l'anno successivo con una condanna a 21 anni di reclusione per tutti gli imputati coinvolti, per disastro colposo ed omicidio plurimo aggravato. In Appello la pena venne ridotta e alcuni degli imputati furono assolti per insufficienza di prove. Nel 1997 la Montedison (che aveva acquisito la SADE) fu condannata a risarcire i comuni colpiti dalla catastrofe. La vicenda si concluse nel 2000 con un accordo per la ripartizione degli oneri di risarcimento danni tra ENEL, Montedison e Stato Italiano al 33,3% ciascuno. La comunità riprese subito a ricostruire non solo il tessuto sociale distrutto, ma anche la città: nel 1971 nacque da zero, su progetto dell'architetto Samonà, il comune di Vajont presso Montereale Valcellina, dove alcuni abitanti sfollati insediarono un nuovo centro urbano. Un altro centro chiamato Nuova Erto venne costruito a Ponte nelle Alpi (provincia di Belluno), di cui costituisce un quartiere. Infine, sopra il vecchio abitato originale di Erto venne costruito il paese di Erto attuale.
L’odissea del Vajont (che prende il nome da un ruscello su cui è stato creato l’invaso d’acqua necessario per la realizzazione della diga che avrebbe alimentato una centrale idroelettrica) è stata raccontato nel libro “Sulla pelle viva” della giornalista Tina Merlin, che in quegli anni era l’unica cronista , dalle pagine de “L’Unità”, a denunciare l’arrroganza della Sade nel privare le terre degli abitanti della valle del Vajont e le loro connivenze con la politica. Una situazione che attualmente ricorda il contesto della lotta sulla Tav nella Val di Susa.
Anche Marco Paolini ha realizzato uno spettacolo di teatro civile sul Vajont. Toccante davvero.
Procurateveli. Ha davvero un senso non dimenticare quello che è successo.

P.S.
Oggi sono 30 anni anche dalla morte di Ernesto “Che” Guevara. Indipendentemente dal giudizio sulla persona, sulla epopea politico- storica di cui è stato protagonista. Il “Che” rimane un personaggio su cui sia la destra che la sinistra si sono confrontati, spesso scontrati. Un eroe per molti, un avventuriero per alcuni, un avversario da eliminare per gli Americani, un mito per nostalgici, un business per produttori di magliette e gadgets, un esempio per chi aveva un’idea di rivoluzione, un argomento da prendere e lasciare per qualche opportunista-banderuola della nostra politica.
V’invito perciò a leggere questo post della mia amica Temphe: reversibilite.blogspot.com/2007/10/spara-dunque-codardo.html
Io non avrei trovate parole migliori per raccontare l’intimità di quel giorno in cui Che Guevara lasciò questa vita.

06 ottobre 2007

Un anno di memorie casuali.

Oggi memorie casuali compie un anno!
E da bravo blog al passo con le sfide dell’attualità ha preteso di passare in boutique per cambiarsi d’abito.
Ma attenzione a cambiare è solo la veste grafica, rimarrà il solito spazio in cui il sottoscritto, proporrà, come recita la presentazione in testata, “pensieri, parole, riflessioni, esortazioni, articoli e quant'altro di un libertario un po' confuso ma simpatico”.
Vorrei quindi ringraziare chi di voi è passato, passa e passerà da queste parti per lasciare il suo commento alle mie solfe.
Ma vorrei comunque spiegarvi perché ho scelto questa nuova veste grafica.
Ci ho pensato un po’ sopra e devo dirvi che pur amando la linearità e la semplicità del precedente template, sentivo il bisogno di qualcosa che mi rappresentasse maggiormente. O meglio che parlasse di qualcosa di me già dal colpo d’occhio iniziale, di quando si arriva su queste frequenze.
Ho quindi trovato questa proposta d’impaginazione.
Il sole e la luna sono simboli che racchiudono qualcosa d’importante per me (tranquilli, Lorenzo Cherubini, alisa Jovanotti non c’entra nulla).
Del sole vi parlerò in un’altra occasione.
Oggi vi parlo della luna.
Alcuni anni fa c’è stata una persona, che ha avuto un’importanza grandissima nella mia quotidianità, nel mio cuore, nella mia anima. Di questa persona io non ho mai dimenticato nulla, perché è rimasta dentro di me, è nelle pieghe della mia energia vitale, è ancora elettricità che percorre le mie membra ed il mio stomaco. È ancora un bellissimo pensiero.
Comunque una sera di primavera, prima d’infilarci in un cinema a pochi passi da casa mia, passeggiavamo sotto una luna non del tutto piena ma assai luminosa.
I nostri nasi erano all’insù, in un momento d’ingenuo e genuino romanticismo, quando questa persona mi rivelò che la Luna aveva un segreto. Era bugiarda. Quando era “Crescente” disegnava in cielo prima un sottile arco con la curva ad est, “)” , poi una panciuta “D” che andava man mano riempiendosi fino alla Luna Piena, “O”. Quando Decresceva la panciuta “D” volgeva la curva ad ovest, “(I”, fino ad essere un sottile arco “C“. Quindi quando Cresce sembra una D e quando Decresce sembra una C, facile no?
Magari a voi sembrerà una cazzata, ma a me, in quel momento, piaceva un casino sentirsi dire certe cose, va!
Molto, molto, molto tempo dopo, quando nella mia testa frullavano ben altre faccende, rientravo di sera a piedi nella mia “casa di uomo che è andato a vivere da solo, perché non sono un bamboccione”, quando nei pressi di un corso alberato, un po’ poco illuminato, ho avuto la sgradevole avventura di venire brutalmente preso a pugni e calci in faccia per essere derubato di un cazzo di telefonino del valore di poche decine di euro. Il risultato fu una frattura del setto nasale e tre giorni all’ospedale dove mi hanno operato. Poteva andarmi peggio, potevo benissimo tornarmene tranquillamente a casa senza avere problemi. La cosa fu comunque un trauma. Per mesi non prendevo sonno senza prima rivivere mentalmente, per filo e per segno, l’aggressione; per un anno non sono quasi riuscito a girare da solo la sera per la mia città, proprio non me la sentivo; spesso quando ero in macchina mi chiudevo con la sicura la portiera, insomma… per un po’ sono rimasto preso un po’ male.
La Luna.. la mia Luna, che tanto mi ha dato, che tanto ha scandito momenti belli della mia vita, dei miei momenti d’amore e d’amicizia, quella volta era rimasta muta testimone di un mio momento drammatico.
Il tempo cicatrizza le ferite, non le fa sparire, ma almeno aiuta a sentire meno male, a mettere nel giusto posto dell’anima certe esperienze della vita, ed anche certe persone.
Quindi ora io e la luna siamo tornati buoni amici. Ci siamo riappacificati.
Diciamo che c'è stata una fase calante, ed ora si va a crescere.

03 ottobre 2007


Nel marzo 2006, Emergency ha dato avvio alla campagna “Diritto al cuore” per costruire un ospedale di cardiochirurgia in Sudan, un centro di eccellenza per garantire cure altamente specializzate e gratuite ai malati del Sudan e dei nove paesi confinanti.
Il 19 aprile 2007 lo staff di Emergency ha operato la sua prima paziente: Sunia, una ragazza di 14 anni che non avrebbe avuto altra possibilità di essere operata gratuitamente da uno staff altamente specializzato.
Emergency ha voluto il Centro «Salam» per condividere anche con i malati africani i progressi della scienza medica: non solo assistenza sanitaria per i bisogni di base, ma anche cure altamente specializzate per affermare e praticare il diritto a essere curati per tutti gli esseri umani.Se in Europa si può guarire – ci diciamo – anche in Africa si deve guarire. E così è stato per le oltre 200 persone operate finora dallo staff di Emergency.
Oggi, perché il Centro «Salam» possa continuare a crescere, Emergency riprende la campagna “Diritto al cuore”: dall’1 al 31 ottobre sarà possibile inviare un SMS al numero 48587 del valore di 1 euro per tutti gli utenti Tim, Vodafone, Wind e 3 Italia oppure effettuare allo stesso numero una chiamata da rete fissa Telecom Italia del valore di 2 euro