29 gennaio 2009

Patrizia


Mi chiamo Patrizia. Ho 46 anni. Sono completamente paralizzata. Un edema celebrare mi ha ridotto così. Praticamente sono un peso morto. Una mattina di qualche mese fa sono arrivati i Carabinieri a casa mia. Avevano dei fogli tra le mani. Era un’ordinanza di misura cautelare in carcere. I Carabinieri, quando si sono resi conto di come stavo, sono rimasti perplessi. All’inizio non volevano neanche più arrestarmi. Hanno anche telefonato al magistrato, ma non c’è stato nulla da fare. Io paralizzata dovevo andare in carcere. Così sono stata presa di peso e caricata su un sacco, per evitare che cadessi per le scale. Arrivata nel carcere di Reggio Calabria, siccome l’infermeria non c’è, sono stata trasportata fino a quella che sarebbe stata la mia cella. Una piccola stanza con una branda. Prima di sistemarmi su quella branda c’hanno messo un telo di plastica. Una precauzione per evitare che io, non potendo muovermi per andare in bagno, sporcassi il materasso. Dopo avermi sdraiato, la porta della cella si è chiusa e sono rimasta sola. Sola in quella cella, costretta immobile su quella branda. Non c’era nessuno che mi aiutasse per fare i bisogni o semplicemente per cambiare posizione. Nessuno che mi aiutasse per bere un bicchiere d’acqua. Nessuno. Anche le medicine, che io devo assumere con regolarità, mi venivano date a casaccio. O addirittura, come spesso è capitato, non mi venivano date affatto. La conseguenza è stata che più volte ho perso i sensi. Più volte ho avuto crisi convulsive. Mancamenti da cui mi svegliavo più confusa, più sporca e più sola di prima. Trascorrevo così le giornate da detenuta paralizzata. Non di rado, vedendomi ridotta in quello stato, ho sentito che non avevo più voglia di vivere. Più di una volta mi sono sorpresa a pensare come potevo riuscire a farla finita. D’altra parte nella mia condizione non è cosa facile!La notte era il momento peggiore. Nessuno ascoltava le mie richieste di aiuto. Nessuno mai è entrato nella mia cella per chiedermi come stavo e se avevo bisogno di qualcosa. Non mi vergogno di raccontare che una sera ero così disperata che mi misi a piangere. Avevo fatto i bisogni ed erano ore e ore che aspettavo qualcuno che mi aiutasse per pulirmi. Pensavo di impazzire. Solo il giorno successivo una detenuta si è presa cura di me. Poi una mattina è entrato nella mia cella il magistrato per interrogarmi. Mi ha guardato stupito per come ero ridotta. Come se non sapesse che ero paralizzata. L’aria era irrespirabile per via del fatto che non venivo cambiata ne lavata da giorni, tanto che un agente di custodia aprì la finestra della cella. Durò poco l’interrogatorio. Quel magistrato mi chiese come facevo a dimostrare che ero paralizzata. Gli riposi che, se non gli bastava vedermi in quello stato, poteva acquisire i documenti medici. Dopo andò via senza dirmi nulla. Ho passato un’altra settimana dentro quella cella. Un’altra settimana di inferno. Andava sempre peggio. Iniziavo ad avere le pieghe da decubito. Il dolore era atroce e forte la preoccupazione di avere un’infezione. La mia salute, già precaria, si indeboliva giorno dopo giorno. Ed anche il mio equilibrio psicologico mi stava abbandonando.Un pomeriggio sono arrivati degli infermieri. Avevano un sacco tra le mani. Quel sacco che mi aveva portato in carcere, ora mi stava riportando a casa. Ora sono agli arresti domiciliari, e attendo fiduciosa di essere giudicata. Non voglio pietà. Né per il mio stato né per quello che ho passato. Ma ho deciso di raccontare la mia storia perché credo sia giusto far conoscere la tortura che ho subito. Perché di tortura si è tratto.
Ogni anno qualche rappresentante delle istituzioni si reca, con tanto di scolaresche al seguito, ad Auschwitz per commemorare le vittime del nazismo. A pochi chilometri da Roma esistono almeno due lager denominati "Ospedali Psichiatrici Giudiziari". Conosciuti un tempo come manicomi criminali, custodivano carcerati che, in preda a turbe di ordine psichiatrico, avevano commesso efferati delitti. La "mission" di queste strutture doveva essere la cura delle predette turbe, attraverso un percorso riabilitativo che contemplava l’utilizzo di farmaci e l’impiego di staff multidisciplinari. Di fatto i "pazienti" venivano sottoposti ad "elettroshock" e "riposavano" sui letti di contenzione, imbottiti di farmaci. Con l’introduzione della legge Basaglia, vengono aboliti anche i manicomi criminali, ma soltanto formalmente. Oggi si chiamano "Ospedali psichiatrici giudiziari" e custodiscono soggetti condannati per omicidio ma non ristretti nelle carceri ordinarie perché "non in grado di intendere e di volere". Un cambiamento di facciata, perché a Montelupo Fiorentino ed Aversa, la condizione in cui vivono questi poveri cristi è allucinante. In sette/otto occupano celle piccolissime, in mezzo ai loro escrementi, senza acqua calda. L’unica cura praticata consiste nella somministrazione di farmaci e nell’utilizzo nel letto di contenzione. Se qualche ricoverato si permette di lamentarsi, riceve torture di ordine psicologico e rischia di trascorrere la vita intera recluso in questi lager.

Cari parlamentari, alzatevi dalle vostre poltrone, mettete fine a questo scempio ed evitate sprechi di pubblico denaro recandovi in Germania.

22 gennaio 2009

Io artigliere ho usato fosforo bianco
di Simcha Leventhal (veterano dei corpi di artiglieria dell'esercito israeliano e membro fondatore di Breaking the Silence)



su Il Manifesto del 22/01/2009



Ho servito come artigliere nella divisione M109 dell'esercito israeliano dal 2000 al 2003 e sono stato addestrato a utilizzare le armi che Israele sta usando a Gaza. So per certo che le morti di civili palestinesi non sono una sfortunata disgrazia ma una conseguenza calcolata. Le bombe che l'esercito israeliano ha usato a Gaza uccidono chiunque si trovi in un raggio di 50 metri dall'esplosione e feriscono con ogni probabilità chiunque si trovi a 200 metri. Consapevoli dell'impatto di queste armi, le gerarchie militari impediscono il loro uso, anche in combattimento, a meno di 350 metri di distanza dai propri soldati (250 metri, se questi soldati si trovano in veicoli corazzati). Testimonianze e fotografie da Gaza non lasciano spazio a dubbi: l'esercito israeliano ha usato in questa operazione bombe al fosforo bianco, che facevano parte dell'arsenale quando anche io servivo nell'esercito. Il diritto internazionale proibisce il loro uso in aree urbane densamente popolate a causa delle violente bruciature che provocano: la bomba esplode alcune decine di metri prima di toccare il suolo, in modo da aumentarne gli effetti, e manda 116 schegge infiammate di fosforo in un'area di più di 250 metri. Durante il nostro addestramento, i comandanti ci hanno detto di non chiamare queste armi «fosforo bianco», ma «fumo esplosivo» perché il diritto internazionale ne vietava l'uso. Dall'inizio dell'incursione, ho guardato le notizie con rabbia e sgomento. Sono sconvolto dal fatto che soldati del mio paese sparino artiglieria pesante su una città densamente popolata, e che usino munizioni al fosforo bianco. Forse i nostri grandi scrittori non sanno come funzionano queste armi, ma sicuramente lo sanno le nostre gerarchie militari. 1300 palestinesi sono morti dall'inizio dell'attacco e più di 5000 sono rimasti feriti. Secondo le stime più ottimiste, più della metà dei palestinesi uccisi erano civili presi tra il fuoco incrociato, e centinaia di loro erano bambini. I nostri dirigenti, consapevoli delle conseguenze della strategia di guerra da loro adottata, sostengono cinicamente che ognuna di quelle morti è stata un disgraziato incidente.Voglio essere chiaro: non c'è stato alcun incidente. Coloro che decidono di usare artiglieria pesante e fosforo bianco in una delle aree urbane più densamente popolate del mondo sanno perfettamente, come anche io sapevo, che molte persone innocenti sono destinate a morire. Poiché conoscevano in anticipo i prevedibili risultati della loro strategia di guerra, le morti civili a Gaza di questo mese non possono essere definite onestamente un disgraziato incidente.Questo mese, ho assistito all'ulteriore erosione della statura morale del mio esercito e della mia società. Una condotta morale richiede che non solo si annunci la propria volontà di non colpire i civili, ma che si adotti una strategia di combattimento conseguente. Usare artiglieria pesante e fosforo bianco in un'area urbana densamente popolata e sostenere poi che i civili sono stati uccisi per errore è oltraggioso e immorale.
Diffondete questo articolo, sopratutto a chi si accoda al coro pro-Israele della giusta operazione di autodifesa.....
Perchè non è stata una guerra, ma un deliberato massacro!

09 gennaio 2009

Sidùn come Gaza
Domenica 11 Gennaio cadrà il decimo anniversario dalla scomparsa di Fabrizio De Andrè.
Tutto è stato già detto su di lui.
Sulla sua vita, sulla sua musica, sui suoi significati.
Per ricordare Faber, la sua arte e per sottolineare uno dei suoi insegnamenti più grandi, la malvagità della guerra, così attuale in questi giorni, mentre Israele sta compiendo un genocidio a Gaza contro i Palestinesi, non posso far altro che usare una delle sue canzoni più pregnanti e belle, Sidùn.
Spero che vi emozionate nel sentirla e che possa sempre ispirare i vostri gesti, la vostra coscienza e il vostro impegno.
"Sidone è la città libanese che ci ha regalato oltre all'uso delle lettere dell'alfabeto anche l'invenzione del vetro. Me la sono immaginata, dopo l'attacco subito dalle truppe del generale Sharon del 1982, come un uomo arabo di mezz'età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato. (...) La piccola morte a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente confusa con la morte di un bambino piccolo. Bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea". (Fabrizio de Andrè)

Ed ecco il testo in genovese e italiano:

U mæ nininu mæu mælerfe grasse au sud'amë d'amë
Il mio bambino il mioil miolabbra grasse al soledi miele di miele

tûmù duçe benignude teu muaèspremmûu 'nta maccaia de stæ de stæ
tumore dolce benigno di tua madre spremuto nell'afa umida dell'estate dell'estate

e oua grûmmu de sangue ouëgee denti de laetee i euggi di surdatti chen arraggëcu'a scciûmma a a bucca cacciuéi de bæ
e ora grumo di sangue orecchie e denti di latte e gli occhi dei soldati cani arrabbiati con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli

a scurrï a gente cumme selvaggin-afinch'u sangue sarvaegu nu gh'à smurtau a quée doppu u feru in gua i feri d'ä prixúne 'nte ferie a semensa velenusa d'ä depurtaziún
a inseguire la gente come selvaggina finché il sangue selvatico non gli ha spento la voglia e dopo il ferro in gola i ferri della prigionee nelle ferite il seme velenoso della deportazione

perché de nostru da a cianûa a u meünu peua ciû cresce aerbu ni spica ni figgeüciao mæ 'nin l'ereditæl'è ascusa
perché di nostro dalla pianura al molo non possa più crescere albero né spiga né figlio ciao bambino mio l'eredità è nascosta

'nte sta çittæch'a brûxa ch'a brûxainta seia che chin-ae in stu gran ciaeu de feugupe a teu morte piccin-a
in questa città che brucia che brucia nella sera che scende e in questa grande luce di fuoco per la tua piccola morte.


05 gennaio 2009

Solitario simposio domenicale


Lo senti?
È nel vino che bevi da un calice solitario
Scende nel corpo, come un messaggio di rabbia
Si confonde col sangue meticcio che ti dà la vita

Lo senti?
È nel fumo che aspiri dalla sigaretta dolciastra che ti crepita tra le dita
Si espande nei polmoni, traditrice e ristoratrice, come ogni piacere
Si fa strada tra i tuoi dubbi e i tuoi sospiri di mezzogiorno

Accendi candele che non spargono profumi
E prepari un pranzo che ti scaldi di commozione
Delle tue ali neanche un battito oggi
È il petrolio dell’aria che ti ha sigillato il volo
Rimani ancorato alla realtà di un soldato che violenta il giorno
La verginità dell’umano vivere è persa da un po’.
La lingua invade una carie, è la calda umidità della carne a darti sollievo.

Oggi ti parla la tua parte oscura, quella più dolce
Oggi lotti contro la parte luminosa del mondo, quella più efferata.