30 marzo 2007

Mc stronz

La zona di piazza Castello è considerato il fulcro del centro cittadino di Torino. Nel giro di pochi passi incontri il Palazzo Reale, sobria residenza dei Savoia nell’800 (nel senso molto torinese del termine, ovvero umiltà esteriore, appariscente all’interno), la chiesa di San Lorenzo, costruita per sciogliere il voto di Emanuele Filiberto per la vittoria nella battaglia di San Quintino, il singolare Palazzo Madama, dimora di Maria Cristina di Francia, costituita da un nucleo di origine romana a cui si sono aggiunte rifacimenti del’400 e la facciata dello Juvarra del’700, il monumento al duca d’Aosta, sito preferito dagli skaters torinesi per via del suo palco marmoreo levigatissimo, il teatro Regio, bruciato e ricostruito nella seconda metà del ‘900 più bello e magnifico di pria. Inoltre nella piazza sfociano via Roma, via Po e via Garibaldi, le strade più note di Torino. La piazza è poi circondata da portici in cui hanno sede diversi esercizi commerciali. Alcuni sono di grido, nel senso che se vedi il prezzo per un paio di mutande ti viene un colpo e gridi, altri sono più abbordabili, sopratutto in periodo di saldi. In ogni caso il traffico di esseri umani è sempre piuttosto sostenuto, un brulichio di persone che si diletta nello “struscio”, che gira con bustine griffate tra le dita, zainetti in spalle per raggiungere l’università, che allunga una mano per battere moneta, che fa la fila per entrare a vedere qualche sito storico, che si da un gancio su una panchina.
Da alcuni anni, poi, all’angolo con via Accademia delle Scienze è comparso il più discusso baluardo della globalizzazione alimentare, un fastfood della McDonald. Per notare la sua presenza non serve una vista da falco, bensì un semplice olfatto. L’inconfondibile aroma di frittura adulterata invade spesso, a seconda di come tirano le correnti d’aria, le narici dei passanti anche nel raggio di un kilometro circa dalla sede del suddetto presidio mangereccio.
Ora, siamo nell’era del lavoro precario, del dileggio delle libertà sindacali, del liberismo selvaggio, ok? Quindi non c’è niente da stupirsi se una ragazza, Debora, cameriera part-time a 600 euro al mese, un giorno decide di cedere il suo pasto, patatine e Coca-cola, ad un bambino che vende accendini e spugnette, e che sosta di fronte al fast-food abitualmente, e che per questo viene licenziata. Motivo? Ha regalato il suo pasto senza rilasciare scontrino fiscale (ma chi si crede di essere, Tanzi? Cragnotti?). Ovviamente la storia prevede un avvocato, un tribunale e un giudice con lieto fine. Ecco tutto giusto tranne il lieto fine. Dopo una sola udienza e una rapida sala di consiglio il magistrato incaricato ha respinto il ricorso di Debora senza ammettere nessun testimone.
La direzione di “McDonald Italia”, 345 fast-food, 12000 dipedenti, 611 milioni di euro di fatturato annuale, si limita a dire che evadere il fisco rovina l’immagine dell’azienda, e che certi provvedimenti vanno nella direzione di tutelare l’impresa e i suoi clienti, e che non si può fare beneficenza con i soldi degli altri.
Ecco, non voglio fare isterismi. A me i prodotti McDonald non piacciono, se devo mangiare qualcosa di veloce per strada, preferisco un trancio di pizza o un Kebab (Allah è grande!), quindi consiglio, se vedete un ragazzino a cui volete fare un gesto di solidarietà, a dargli cinque euro per mangiare qualcosa di meno contraffatto che cibi targati made in iuessei (per il perché dal punto di vista salutistico vi rimando alla visione del film “Supersize me”). Anche perché per quanto un commerciante qualsiasi possa essere meschino, bottegaio, venale, non toccherà mai l’apice di un “Mc Stronz”, la nuova e moderna catena mondiale del mangiare veloce!

P.S. Debora non so dove tu lavori adesso, ma spero che la prossima volta che tu ti senta di fare un gesto solidaristico non ti senta impaurita dal farlo, “Mc Stronz” non ti meritava.

27 marzo 2007

Senza stare fermo

Oggi potremmo piacevolmente discorrere del tredicesimo anniversario delle elezioni politiche del 1994, le prime dopo il polverone di Tangentopoli e la caduta della prima Repubblica, quelle, tanto per capirsi, che portarono alla prima storica affermazione di Silvio Berlusconi, il più modesto dei politici nostrani, l’uomo che una volta disse di sé:” Hanno fatto una prova anche su di me, sulla mia funzionalità cerebrale e fisica e hanno deciso che sono un miracolo che cammina. ” (ANSA, 5 ottobre 2002, ore 19:33).
Ma visto che da quello choc non mi sono ancora ripreso, ed avevo diciot’anni e mezzo e furono le prime votazioni a cui partecipai, meglio parlarne in un’altra occasione, anzi mettiamoci per il momento una pietra su, un macigno magari…
Parliamo invece di un atleta. Il suo nome è Alessandro Villa, ha 26 anni e abita a Monza con la moglie e due figli piccoli. Alessandro ha compiuto un piccolo e personale record: l'11 marzo scorso è partito per gli Stati Uniti dove, con l'amico Kyle Bryant, ha percorso in poco più di una settimana in sella a una handbike, 770 chilometri, da Baton Rouge, nei pressi di New Orleans, a Memphis, dove ha partecipato al congresso nazionale della National Ataxia Foundation. Ma cosè una handbike? È una bicicletta a tre ruote che si spinge con le mani. E perché Alessandro usa questo bizzarro mezzo di locomozione? Perché è affetto dall'atassia di Friedreich (AF), una rara malattia neurologica degenerativa che implica la mancanza di coordinazione motoria e per la quale, al momento, non esiste una cura. Anche il suo amico Kyle soffre della medesima malattia.
A Baton Rouge, Alessandro è partito con Kyle, che però viaggiava su una Tribike che si spinge con le gambe, ed era molto più veloce. Così Alessandro gli ha detto di andare. "Lì sono cominciati i momenti duri" racconta Villa, e lo testimonia l'e-mail spedita agli amici il 20 marzo: "Ho tirato la handbike con la sedia attaccata dietro, due zaini, il pc e due magliette ma ce l'ho fatta. Ho pedalato sotto la pioggia, col vento, ho dormito in uno scatolone, poi in un lurido motel, poi con i vigili del fuoco. Me la son fatta sotto, ho vomitato e pianto dalla paura ma sono qui, ed ora mi concedo relax fino al congresso, poi voglio solo tornare dai miei bambini". Non sempre Alessandro ha trovato da dormire. "L'esperienza più brutta è stata in quel motel dopo Madison. Non vedevano di buon occhio la mia disabilità e non volevano che portassi la handbike in camera: ma io ne avevo bisogno, perché a bordo avevo il pc per le e-mail e il cellulare. La stanza era così piccola che per sistemarci la hb ho dovuto dormire con la porta aperta". Ma tante volte ha sperimentato l'ospitalità degli americani: "A Madison e a Clinton ho dormito nella caserma dei vigili del fuoco che mi hanno ospitato con molto calore. E tante volte, quando ero stanco, ho chiesto un passaggio per tirare il fiato qualche chilometro. Mi caricavano con quei loro grandi pick-up: dietro mettevano la hb e davanti me, sono stati davvero molto gentili". Ora Alessandro aspetta l'amico Kyle: stanno progettando un tour dell'Italia che l'americano non ha mai visitato: Venezia, Firenze, Roma, pedalando su tre ruote da una città all'altra. Certo… ammodernamenti stradali permettendo!

"Penso che talvolta i veri limiti esistano in chi ci guarda". (Candido Cannavò da “E li chiamano disabili”)

23 marzo 2007

Invocazione per Margherita

Questo è un post di costume, lo dico subito, quindi qualcuno lo può trovare un po’ babbeo, ma per me rappresenta un modo un po’ ironico per staccare un po’ la tensione e la polemica dei miei ultimi interventi.
Qualche sera fa, sono andato al cinema e ho assistito alla proiezione del film “Saturno Contro”.
Come al solito ho apprezzato le belle atmosfere umane che Ozpetek sa dare alle sue opere, la grande naturalezza che infonde agli attori, e la bellezza delle locazioni che usa, anche se un po’ lontano dal livello raggiunto con “Le fate ignoranti” (se in quel film è riuscito persino a far fare bella figura a Gabriel Garko, è davvero un bravo regista!!).
E poi c’è un discorso tutto particolare su Margherita Buy.
Premetto che considero Margherita una delle più dotate attrici italiane.
Ma davvero… davvero… davvero… davvero basta!! Basta con questi ruoli di moglie in crisi esistenziale-sentimentale, magari pure con le corne! Fa solo quello! Mai che gli diano un’altra parte. Basta! Margherita ti prego cambia! Che ne so fai un noir di una un po’ serial killer, una commedia in cui sei una mamma un po’ simpatica e grulla, ma basta con le corna addosso! Basta con i piagnistei perché il tuo matrimonio va a schifio e ti ritrovi con un esercito di figli famelici e psicotici che ti rendono uno straccio di donna. Dai basta!
Ricordati che hai pur sempre frequentato l'Accademia di Arte Drammatica e dopo alcuni spettacoli teatrali, hai debuttato al cinema nel 1986 con “La seconda notte” di Nino Bizzarri.
Poi nel corso della tua carriera hai vinto due volte il Nastro d'argento come migliore attrice protagonista: nel 1991 con “La stazione”, di Sergio Rubini (che hai tempi era anche tuo marito) e nel 2001 con “Le fate ignoranti” e due volte il David di Donatello: 1991 ancora con “La stazione” e 1999 con “Fuori dal mondo” di Giuseppe Piccioni). Hai vinto anche due Nastri d'argento per migliore attrice non protagonista: il primo vinto nel 2002 per il film “Il più bel giorno della mia vita” di Cristina Comencini e il secondo nel 2004 per il film “Caterina va in città” di Virzì.
Certo questo vuol dire che il ruolo di sfigata rende. Ma dai non si può continuare a vederti così.
Prendiamo in considerazione i tuoi ultimi film:
- Le fate ignoranti: tuo marito muore, e scopri che ti faceva le corna con un altro uomo
- Il più bel giorno della mia vita: sei una donna separata, con un figlio in crisi esistenziale e t’innamori di un uxoricida che chiama per sbaglio a casa tua
- Ma che colpa abbiamo noi: sei l’amante di un uomo sposato che non verrà mai a vivere con te, poi rimani in cinta una sera che fingi di essere una prostituta
- Il siero della vanità: sei una poliziotta separata.
- L'amore ritorna: il tuo ex marito è in ospedale e ti chiede continuamente aiuto e tu non sai dire di no
- I giorni dell'abbandono: tuo marito ti lascia per una che ha la metà dei tuoi anni
- Manuale d'amore: hai un marito annoiato e degli amici pallossissimi e non sai come far andare avanti il tuo matrimonio
- Il caimano: hai mandato via di casa tuo marito senza una ragione e adesso non sai che fare.
- Commediasexi: tuo marito fa finta di essere l’amante della amante del suo capo, solo che ci prende gusto
- Saturno contro: tuo marito si fa un’altra e te lo dice come se niente fosse
Ma si può andare avanti così? Capisco che il cinema italiano non dia tante alternative, ma Laura Morante non se la passa poi così male come te!

20 marzo 2007

Esportare la pace.


Sento ancora addosso la contentezza per l’avvenuta liberazione di Daniele Mastrogiacomo, anche per via della decisiva mediazione di Gino Strada.
Sono stato un attivista di Emergency, in quella esperienza ho conosciuto gente fantastica, come Paola, che è la responsabile della sezione di Torino, ed è una persona limpida e generosa, sempre in giro per organizzare la presenza dei banchetti dell’Associazione per le strade e nei momenti culturali della città, ma anche per assicurare l’incontro con i giovani delle scuole per spiegare come “fare la pace”. Gente fantastica come Loris, un’infermiere, solare, allegro, umile, faccia da eterno ragazzino, che mostrandomi le foto che ha scattato in Afghanistan, durante un periodo in cui ha fatto da supervisore nell’Ospedale di Emergency a Kabul, mi ha mostrato una guerra che esiste tutt’ora, e a morire o a venire mutilati sono spesso bambini. Bambini che corrono e scoppiano su di una mina, che la raccolgono pensando fosse un giocattolo (perché li fanno a forma di rondini, sti bastardi di costruttori di mine anti-uomo, e allora capisci che li fanno così proprio per ammazzare i bambini, creare popoli di vecchi e invalidi da sottomettere meglio), e quindi via mani, gambe, parti di addomi, pubi bruciati, occhi che friggono. E la chiamano l’età felice.
Quindi fatemi un cazzo di favore. La prossima volta che qualcuno dice che gli Occidentali intervengono nei paesi medio-orientali per “esportare democrazia”, mostrategli quello che dicono i libri scritti da Strada “Pappagalli verdi” o “Buskashi”, e mandatelo a fare in culo.
Tra l’altro l’opera di Strada per liberare Mastrogiacomo ha mostrato al mondo l’impotenza e l’incoerenza del tanto osannato Karzaj, presidente fantoccio dell’Afghanistan, che piccato dall’esuberanza di Strada ha già fatto fermare uno dei collaboratori di Emergency come atto meramente di ritorsione. Emergency stessa dichiara, in un comunicato stampa che : “Questa mattina all’alba agenti della sicurezza afgana hanno arrestato il manager dell’ospedale di Emergency a Lashkargah, Rahmatullah Hanefi. Rahmatullah ha la sola colpa di avere fatto tutto il possibile per salvare vite umane in immediato pericolo. Emergency fa appello ai mezzi di informazione perché sostengano con forza la liberazione di Rahmatullah Hanefi, che ha contribuito in modo determinante al rilascio di Daniele Mastrogiacomo.”
Invito quindi a rimanere aggiornati sui siti di Emergency e PeaceReporter, i cui link potete trovare nella colonna di destra di questo Blog, per sapere come essere utili per la causa pacifista.
E chi non lo fa che si ritrovi a braccetto di Bondi e Runi al prossimo “Family day” a cantare le canzoni di Azione Cattolica!

16 marzo 2007

Lyrica

A volte mi chiedo cosa farò della mia vita quando raggiungerò il traguardo della pensione.
Ebbene il mio sogno sarebbe quello di ritirarmi in una località di mare, con una casetta che da su una spiaggia o calanca, passare giornate a vedere l’orizzonte, leggere libri di storia, compresi tomi enciclopedici sulle crociate o sulle guerre puniche, mangiare pesce in terrazza, di tanto in tanto ricevere torme di nipoti con gli occhiali e la erre arrotata come il sottoscritto, e parlargli di me e dei miei sogni…
Certo a patto che le prossime trenta- trentacinque finanziarie non mi lascino, diciamo così, col culo per terra, perdonate il sofisticato giro di parole.
Un ragionevolissimo quesito il mio, che mutuo da un articolo di cronaca letto oggi.
Un uomo racconta la sua difficile situazione, in quanto si ritrova ad assistere la moglie gravemente malata di sclerosi multipla, che la costringono a subire dolorosi spasmi, alleviati da un farmaco, il “Lyrica”. Un farmaco che ti fa cantare l’Aida come la Ricciarelli? Ma no! È un medicinale di grande efficacia, utilizzato da molti malati, un farmaco di prima qualità. E di gran costo. Una confezione (da 56 pillole) costa 85 euro, la moglie del signore in questione ne ha bisogno di almeno un paio di confezione al mese. Risultato 170 euro al mese. Una discreta botta per chi, come i protagonisti della storia, ricevono solo 550 euro al mese di pensione e devono anche pagare affitto, spese e cibo. Il Lyrica era mutuabile fino a poche settimane fa. Ma è stato tolto dalla lista. Pare che se ne facesse abuso di prescrizioni.
Ma ora mi dico, se era stato inserito nella lista precedentemente, è perché era riconosciuta la sua importanza e il suo alto costo. Ora, se si è riscontrato un abuso, perché non regolamentare il delicato passaggio delle prescrizioni e magari sanzionare medici compiacenti, probabilmente con chi non ne aveva diritto alla prescrizione, dando, invece, la possibilità di continuare ad usufruirne gratuitamente a chi, come i protagonisti della vicenda, ne hanno un reale bisogno per vivere dignitosamente. Invece non si tocca lo status quo dei medici, che alla faccia del giuramento d’Ippocrate, fanno ancora intrallazzi con le case farmaceutiche, tipo la prescrizione del terribile “Ritalin”, uno psicofarmaco per bambini considerati troppo vivaci. Che non sia mai che i genitori imparino a dialogare con i figli esuberanti! Meglio bombarli sin da subito, così è più sicuro che vengan su belli lobotomizzati, mica come i loro padri e madri che si son dovuti sorbire ore ed ore di tv per raggiungere lo stesso risultato.
Adesso vado a farmi una bella insalata. Mi devo tenere in forma, che se mi ammalo col cacchio che poi mi godo la pensione al mare, ed invece dei libri di storia mi tocca comprarmi l’enciclopedia medica.

13 marzo 2007

Appelli

Se andando in giro per Torino notate andare maldestramente in bici un capellone con gli occhiali dalla montatura blu, il giubbotto di pelle scura, la sciarpa rossoblu (un ricordo di un gemellaggio dopo un Torino – Genoa di tre stagioni fa), il caschetto argento- nero- azzurro e lo zainetto grigio sulle spalle, ebbene sappiate che quello sono io. Quindi non mi tagliate la strada o peggio mi sgasate sotto il naso, potrei mandarvi mentalmente al diavolo o augurarvi di rimanere attaccati al cesso, in preda ad un epocale dissenteria, per i prossimi cinque giorni, per poi darvi tregua per lunedì quando dovete ripresentarvi a lavoro.
Ecco a me l’uso della bici rilassa.
E mi fa bene anche al fisico, perciò il mio girovita si sgonfia, e con i soldi risparmiati di benzina, il mio conto corrente placa il suo dissanguamento. Certo il fatto che poi il mio itinerario giornaliero per raggiungere il luogo di lavoro si snodi per alcune delle vie più trafficate ed inquinate di Torino, magari alla lunga potrebbe causare indesiderati effetti collaterali, tant’è che già mi sento i polmoni come se vivessi in una malcurata fonderia siderurgica ucraina d’inizio novecento.
Ma volete poi mettere con la sensazione di quando si arriva poi a casa, ci si spoglia dei panni sudati e si fa una doccia rinvigorente e ci si piazza con una birra gelata davanti al televideo? Fantastico! Anche perché poi capita di leggere cose eccezionali tipo:

Dal Papa monito ai politici cattolici
"Non votate leggi contro natura”

“Grandioso!” Mi dico tutto ebbro di Splugen in lattina, “finalmente il Papa si scaglia contro il finanziamento delle missioni militari, contro lo scippo del Tfr, contro le leggi ad personam, contro le leggi elettorali che sanno d’inciucio, contro le liberalizzazioni dei servizi pubblici… contro… contro….” Leggo meglio, leggo in dettaglio, leggo da vicino con gli occhiali… e… e capisco che parla ancora della forma di famiglia classica, dei Dico da bocciare, dei gay descritti come pagliacci.
Un moto di delusione mi attanaglia la panza. Lo so, lo so… avete ragione. Bere birra dopo una doccia fa cattivi scherzi.

P.s.
Parlando seriamente: l’appello di Repubblica per la liberazione del giornalista Daniele Mastrogiacomo ha raggiunto quasi 60000 firme, magari se non l’avete fatto affrettatevi, è un gesto simbolico, ma è un modo per sodalizzare con lui e con chi è in ansia per la sua sorte, v’invito ad andare su questo sito e firmare:
www.repubblica.it/speciale/2007/appelli/mastrogiacomo/



Chi non lo fa che sogni Mastella per il resto della settimana!!

08 marzo 2007

Mimose

Care e cari bloggers, dopo avervi intrattenuto in queste settimane con le puntate del mio racconto, torno tra voi a parlare di attualità e vita vissuta.
Oddio… la mia personalissima esistenza non segnala niente di fantasmagorico, semmai tanta, troppa routine, quindi tuffiamoci nell’ argomento sulla bocca di tutti oggi, che dite? Il cilicio della Binetti?! Il cachet della Hunzicker al festival di San Remo?! La testa rasata di Britney Spears?! Uhmmmmm…… ma dove sono stato negli ultimi tempi? Volevo parlare sì di donne, anzi della festa della donna, oggi è l’8 marzo.
A pranzo ho mandato questo sms alle mie amiche: “Buona festa della donna. Con gli auguri di sentirsi sempre fiera di essere l’altra metà del cielo. ;-) Mauro
Tra tutte le risposte, piuttosto affettuose, mi ha colpito quella della mia amica Valeria, medico eccelso che da poco meno di un anno ha dato alla luce un simpatico maschietto, che mi ha scritto: “grazie.. A fare la mamma ci si scorda un po’ di fare la donna.. Baci”.
Mi ha colpito l’umanità della mia amica Valeria, acerrima rivale durante le partite di Taboo, gradevole compagna di viaggio in molte escursioni per l’Europa, complice affiatatissima quando c’era da dissacrare i nostri amici bigotti. In un’epoca molto cool, in cui è necessario fare sempre il primo step giusto, senza eccedere nell’essere troppo posh, escludendo di farsi spaventare dallo job rotation, giusto per non perdere di vista il target del proprio business, saper che il ruolo di madre a volte non coincide con quello di donna mi lascia piuttosto interdetto. È quindi vero che, per una donna, saper sgomitare in una società ancora etero-maschilista-centrica (mi pare di parlare come uno dei protagonisti di “E morì con un felaffel in mano”), per sentirsi realizzata, comporta dover rinunciare ad alcune cose come la possibilità di dedicarsi con attenzione al progetto di una famiglia. E viceversa. Per seguire con attenzione la crescita di figli e il rapporto con un compagno/a si finisce per sentirsi sminuita come donna perché senza una posizione sociale riconosciuta.
Un bel problema. Sarebbe il caso di farci su una bella discussione.
Ma mi permetto di fare un’ulteriore provocazione.
Vorrei quindi regalare virtuali mimose a tante donne che forse non rientrano nel ragionamento sopra descritto.
Vorrei regalare una mimosa a quella ragazza incinta dell’est che chiede l’elemosina al mattino all’incrocio di piazza Rebaudengo, soldi che poi versa a dei connazionali che vengono a prenderla a mezzogiorno caricandola su una macchina. Vorrei regalare mimose alle chiassose donne nigeriane che stazionano la notte in via Ala di Stura e che mi agitano le mani quando passo con la macchina davanti a loro per andare a casa. Vorrei regalare mimose alla badante bulgara della madre di un mio vicino di casa, espulsa perché trovata senza permesso di soggiorno, il mio vicino non voleva spendere la marca da bollo per i documenti della regolarizzazione. Posso regalarvi solo mimose, che non vi servono a niente, ma che in questo paese sono utili ad uomo quando si vuole lavare la coscienza davanti ad una donna.

03 marzo 2007

La memoria di un giorno
settima ed ultima parte
Le mani di mia madre sembrarono rimpicciolirsi intorno al suo dolore, come a protezione del suo cuore, della sua anima, del ricordo della famiglia che eravamo, nella memoria di me e mio fratello Davide che giocavamo con le macchinine seduti per terra, in una estate a metà degli anni ‘60, su una terrazza di una pensione in Liguria, intanto che mia madre spazzolava i capelli di mia sorella Eliana che a sua volta, seduta su una sedia con il sedile di vimini, lisciava quelli della esangue bambola che teneva tra le mani. Mentre mio padre leggeva il suo quotidiano su una sedia a sdraio al riparo di una tettoia con il tetto di plastica verde ondulata. La memoria di un giorno si potrebbe dire, di un giorno normale, di una normale famiglia molto fortunata.
Sono passati anni, dolori, Natali e Pasque, ferie in agosto e fine settimana passati a fare gli straordinari, tonsilliti e antibiotici, partite di calcio in tv e letture di libri tascabili, vestiti comprati, vestiti lavati, vestiti rammendati, vestiti accorciati, vestiti allargati, vestiti buttati.
Sono nati figli, morti nonni.
Per arrivare ad una serata in teatro, con genitori emozionati, insegnanti curiosi, alunni vocianti. Ed una donna, una volta bella come una figurina delle sfilate parigine, in piedi, assorta, che aspetta di sedersi per guardare lo spettacolo in cui ci sarà sua nipote.
Con un imprevisto. Che si materializza sotto le spoglie della professoressa d’Italiano di Marta, la signorina Castigliano, che avvicinandosi a mia madre, chiede:
- È lei la signora Marta Quaglino?
- Sono la vedova Quaglino…o la signora Marta Jenner… dipende chi lei cerca.
- Cerco la nonna di Marta Quaglino della terza f.
- Allora sono io.
- Bene, allora senta…
Mia madre e l’insegnante di mia figlia Marta si misero a parlottare fitto e sottovoce. La signorina Castigliano poi indicò a mia madre la prima fila, mia madre annuì. Dopo poco si congedarono reciprocamente e mia madre girandomi verso di me, annunciò:
- C’è un posto riservato per me in prima fila, sai?
Nei suoi occhi brillava una luce insolita, poi aggiunse:
- Pare che tu avessi ragione, la nostra piccola Marta ha davvero molte sorprese in serbo per noi, stasera..
- Ti giuro che non ne sapevo niente. – dissi io realmente incredulo e curioso.
- Vai nonna, mi sa che sarai una specie di guest star stasera. – intervenne Adriano.
- Ma tu ne sai qualcosa? – gli chiesi.
- Pà, ho giurato di essere muto come un pesce, vedrai che scintille nel dopo recita. – disse, sottovoce, lui al mio orecchio.
- Scintille? – mi allarmai io.
- Calmo, calmo, fidati dei tuoi figli.
- Sì, come no….
Intanto mia madre ci lasciò al nostro colloquio e si avviò al suo posto in prima fila, indicatogli precedentemente dalla signorina Castigliano.
Passarono pochi minuti, le luci si abbassarono e il sipario si alzò. Assistemmo allo spettacolo, che era liberamente ispirato a "L'amico ritrovato" di Fred Uhlman, la storia di due studenti sedicenni, che nei primi anni ’30 del ‘900 vivono in Germania, tra i quali, dopo essersi incontrati a scuola, nasce un'amicizia magica e perfetta. Uno era un figlio di un medico ebreo, mentre l’altro apparteneva a una famiglia dell'alta nobiltà. L’avvento del nazismo divise i loro destini tragicamente. Mia figlia Marta faceva una parte breve, poco meno di dieci battute, interpretava la madre di uno dei due protagonisti, ovviamente di quello ebreo, era una personaggio singolare, goffo, una scelta sorprendente considerato l’indole espansiva di mia figlia.
Alla fine gli applausi scrosciarono sinceri. Tutti i ragazzi raccolsero il battimano e s’inchinarono e sfilarono via dal palco. Tranne Marta. Vidi Adriano che si avvicinava a mia madre e la inquadrava con insistenza, poi passava a riprendere la sorella, che aveva una espressione ieratica e fissa.
Ebbi un sussulto sulla mia poltroncina di decima fila. Che stava succedendo?
Mia figlia Marta iniziò a dire:
- Gentili Signore e signori… sono felice che lo spettacolo a cui avete assistito sia stato di vostro gradimento. Ora vi chiedo di pazientare ancora pochi attimi. Vorrei che ascoltasse le parole di una persona a me molto cara. Mia nonna Marta Jenner.
Disse questo e alzò il braccio verso mia madre, la invitò così a salire sul palco.
Vidi mia madre oscillare, poi comparve la signorina Castigliano, le offrì il braccio per accompagnarla, e dopo una brevissima esitazione, mia madre accettò l’invito.
Salì sul palco, prese la mano della nipote, si scambiarono uno sguardo, che dalla mia poltroncina non capì se fosse d’intesa o altro, poi mia madre guardò il pubblico, guardò anche me, ma senza vedermi.
- Buonasera, il mio nome è Marta Jenner, nacqui alla fine degli anni ’30, da mio padre Aronne Jenner, un artigiano, reduce decorato della prima guerra mondiale, e da mia madre Miriam Levi. Eravamo ebrei, ma non capii che cosa volesse dire fino a quando, nella primavera del 1943, non ci deportarono ad Auschwitz, lì dopo poche settimane, mio padre fu ucciso dai nazisti con un colpo di pistola alla nuca. Questo me lo raccontò mia madre quando tornammo in Italia. Io non ricordo molto di quegli anni, solo che ero costretta spesso a nascondermi in una baracca con degli altri bambini, stavamo stretti e ci alitavamo uno con l’altro per non sentire troppo freddo come ci dicevano le nostre madri. Poi un giorno le porte del lager si aprirono e noi iniziammo un lungo viaggio di ritorno verso casa. Ci accompagnavano degli uomini, italiani e piemontesi anch’essi, che erano riusciti a sopravvivere al campo di concentramento. Attraversammo mezza Europa, ci fermammo però diverse settimane, forse mesi, in Austria, o forse era Alto Adige, o forse era Ungheria o Germania, io non lo seppi , né lo capii mai. Ci fermammo perché mia madre aveva un ventre gonfio e doveva partorire. Così, in un casolare ai bordi di una montagna dove ci avevano dato ricovero, nacque una bambina, chiesi a mia madre se fosse mia sorella, lei dal suo letto mi disse di sì, mentre alcune donne di quella casa si affaccendarono intorno a lei con lenzuola sommariamente pulite. Mia madre mi chiese come voleva che la chiamassimo, io risposi “Lalla”, che era il nome di una bambola che avevo in Italia e a cui ero affezionata e non ritrovai mai più. Ma la mia piccola sorellina come era comparsa, sparì. Compresi, molto dopo, che non sopravisse che poche ore, poiché era prematura. Comunque non era frutto di un amore, ma della violenza del lager. Quando finalmente tornammo a casa, mia madre mi fece giurare che avrei dimenticato quello che era successo negli ultimi anni, che eravamo sole e che ci saremmo ricostruite una vita solo dimenticando ogni attimo, ogni episodio o sensazione che ci accadde da quando fummo segregati e deportati. Annuì e accettai il suo giuramento. E veramente lo rispettai. Anche quando, divenuta donna, mi sposai e crebbi con mio marito tre figli. Solo ora che lui non c’è più, come già da molti anni mia madre, mi affiorano alla memoria i ricordi di quella vita, di quella mia prima vita, i ricordi di una sopravissuta. Compresola memoria del giorno in cui nacque e visse mia sorella Lalla, che spese la sua vita come una rosa non colta.
Quando mia madre ebbe finito di parlare ci fu un attimo di silenzio, poi le persone applaudirono timide ed emozionate. O forse imbarazzate. Io mi alzai, con mia moglie Lucia andai a prendere mia madre e ci dirigemmo all’uscita. Fuori aspettammo la piccola Marta, mentre mio figlio Adriano prese l’auto di Lucia e si congedò da noi e raggiunse dei suoi amici in centro per bersi una birra,non prima di averci dato in consegna la telecamera. Quando mia figlia ci raggiunse c’infilammo in macchina e partimmo tutti e quattro silenziosi.
Accompagnammo mia madre a casa, la salutammo, lei mi guardò con degli occhi lucidi e disse:
- Ernesto sono una sopravissuta, lo sono sempre stata, sono sopravissuta al lager, alla ricostruzione di una vita, al progetto ambizioso di tuo padre di scalata sociale, sono sopravissuta all’ostilità dei miei suoceri e alle vostre sciagurate beatitudini di figli annoiati e ingenui, sono sopravissuta alla morte di Davide e di tuo padre, ed in tutto questo sono rimasta sola, accettando solo la compagnia delle ombre dei fantasmi di questi avvenimenti, forse, da stasera, sarà meglio che faccia uscire da me tutto questo.
Mi baciò e si avviò via.
Ritornando a casa nostra, chiesi a mia figlia:
- Come hai capito che tua nonna aveva questi segreti?
- Non l’ho capito. Lo sapevo.
- E come lo sapevi?
- Sapevo che nonna avrebbe dovuto dirci prima o poi qualcosa, l’importante era fargli trovare il momento giusto, e sai una cosa?
- No.
- Forse domani è meglio che fai una telefonata a zia Eliana e gli fai vedere questo.
Marta prese la telecamera in mano e me la tese vicino. Capii in quel momento che il bisogno di mia madre di parlare non era minore al nostro di sentire.
La fitta pioggerellina cadeva e ticchettava sul tettuccio della nostra auto. Scalai le marce e mi avviai a casa mentre tutti i semafori della città iniziarono a lampeggiare di luce arancione.