13 giugno 2007

F.d.A. (in assenza di)

Certe cose mi mancano da morire.
Anni ’70 (fine) / ’80 (prima metà). Tipo il pane, pomodoro e olio che mia mamma mi preparava come colazione quando ero piccolo, altro che i cornflakes col latte che molti miei compagni di classe dichiaravano di consumare al mattino, perché avevano mamme moderne e consumatrici di tivvì. Oppure ho nostalgia di Mazinga e Ufo Robot. Io non ne perdevo neanche una puntata, ma non per passione, e che veramente non avevo niente altro da fare, e nessuno con cui giocare, io non avevo giochi “fighi” e neanche di prima mano, e questo mi rendeva spesso un escluso. Bastardi compagni di classe delle elementari e medie figli di papà, che peste vi colga! Per fortuna le cose sono poi migliorate, ho conosciuto amici veri, alcuni di loro ancora sono presenti nella mia vita.
Anni ’80 (seconda metà) / ’90 (prima metà). Mi mancano terribilmente le partite a pallone sul campetto di cemento, nel giardino di fronte a casa mia, specialmente quelle del sabato pomeriggio perché erano quelle più combattute, e dovevo confrontarmi con i migliori piedi del mio circondario, ed erano per lo più ragazzi più grandi, dovevo sudarmela la possibilità di giocare con loro, ma quasi sempre ce la facevo, non ricordo neanche più bene quanti pantaloni ho ridotto a brandelli su quel campetto….

Poi dovrei parlare delle persone che mi mancano, ma sarebbe argomento lungo, non so da chi iniziare e comunque non riuscirei a fare un nudo elenco, di tutti dovrei raccontare la storia, come è successo per Flavio, il mio amico dell’università di cui ho parlato ad inizio maggio, ma non oggi.
Mi manca Fabrizio de Andrè. Ecco, magari di lui lo posso dire che mi manca. Mi manca passare per le strade di Torino e non vedere mai un manifesto che indica la data del suo prossimo concerto in città. Mi manca sapere che ne pensa dei fatti del quotidiano, mi manca scorgere il suo sorriso obliquo. Chissà se gli hanno detto che il suo Genoa è tornato in serie A. Ma se Dio esiste, vedendolo, spero almeno che lo abbia baciato alla fronte, che tra libertari ci si dovrebbe capire.


Questa che segue è una intervista apparsa su la “DOMENICA DEL CORRIERE” nel 1974.

Milano.
Quando l'impresario Mario Ber­nardini, proprietario della «Bus­sola», il locale più famoso della Versilia ha detto a Fabrizio De André, cantautore: « Vanno bene sessanta mi­lioni sull'unghia per quindici sere di spettacolo? », Fabrizio - che è geno­vese e dovrebbe quindi non essere insensibile al fascino del denaro — ha alzato con la mano il ciuffo che gli nasconde perennemente l'occhio sinistro ed e rimasto un attimo fermo co­me una statua. Poi, secco, ha risposto semplicemente « no ». Ora, davanti a me, racconta questo che ormai è un aneddoto scuotendo il capo come uno scolaro testardo, dice: « Ormai do­vrebbero averla capita: suor Fabrizia non si spoglia ». Fabrizio De André, il più adorato cantore nella nostra generazione (ogni longplaying almeno centomila copie per un giro di trecen­to milioni) è in una sala d'incisione milanese: giacchetta di lana beige, la camicia azzurra spiegazzata, la barba lunga e l'immancabile whisky in ma­no. « Ne vuoi uno? » Me lo versa personalmente con una cortesia inna­ta, non formale. Di amici Fabrizio ne ha pochissimi, gli « altri » non li vuoi conoscere. « Per colpa mia: temo non mi capiscano: è così difficile, oggi. »
L'ultimo longplaying di Fabrizio « Storia di un impiegato » è ai vertici delle classifiche, ha già venduto più di 120 mila copie, sarà il successo dell'anno. In sala, ora, lui sta incidendo un altro longplaying. Ma non e una nuo­va storia che gli è nata dentro (« Quella si vedrà, non è neppure abbozza­ta ») ma un disco antologico con al­cune sue canzoni conosciute più tre pezzi di Brassens. « E' snervante, sai, questo lavoro in sala. »
Snervante soprattutto per un uomo come lui, perfezionista, introverso. Sta provando e riprovando dalle nove del mattino e, adesso, sono le nove di sera. Mi prende sottobraccio: « Vieni, an­diamo nel mio albergo, è proprio qui di fronte. Non ho fame, dopo sessan­ta sigarette, ma bisogna mandar giù qualcosa ».
Dobbiamo attraversare piazza Cavour, solo pochi passi, ma il traffico e fermo, bloccato da una manifestazione. Accelera il passo: « Guardare e vigliacco, inutile: a queste cose o si partecipa o niente. Andiamo ».
A tavola ordina una tartara che condisce da solo. Tratta la carne sgar­batamente, la rivolta in fretta: per lui è solo un boccone per nutrirsi, una medicina. Il vino rosso di marca, scel­to con cura, l'assaggia con amore.

Fabrizio: forse non ti rendi conto della dinamite che hai dentro, di quanto potresti essere più importante per i giovani. Non ti senti sulle spalle questa responsabilità? Perché non cer­chi di comunicare anche su un palco­scenico. Potresti farlo gratis, non sa­rebbe uno spogliarello commerciale.
Lascia il boccone a metà, mi guar­da fisso ma con lo sguardo incerto di chi si confronta dentro continuamente e non è mai sicuro di quello che dice. « Fossi cosciente d'essere un Bob Dylan (quello di prima, non quello di oggi) fossi cosciente di essere una vo­ce utile davvero, con qualcosa da di­re veramente, non avrei dubbi: me ne andrei in giro a cantare subito. »

Invece sei sempre pieno di dubbi.
Mi fissa come fossi matto. « Sono tutto un dubbio perenne: la "Storia di un impiegato" l'abbiamo scritta, io, Bentivoglio, Piovani, in un anno e mezzo tormentatissimo e quando è uscita volevo bruciare il disco. Era la prima volta che mi dichiaravo po­liticamente e so di aver usato un lin­guaggio troppo oscuro, difficile so di non essere riuscito a spiegarmi. »

Ma hai anche scritto versi come: « Quando in anticipo sul tuo stupore verranno a chiederti del nostro amo­re... Una sintesi chiarissima... ».
« E' il momento che preferisco ma è uno sprazzo... »

Raccontamela allora con le tue pa­role questa storia...
Chiama il cameriere, chiede della minerale (« Per prendere fiato, fare una pausa dopo tanto alcool ») e ri­prende: « Un impiegato, un colletto bianco che non appartiene a nessuna classe, non al capitalismo, non al pro­letariato, ispirato dal maggio francese cerca il riscatto con un gesto da anar­chico individualista: una bomba. Fi­nisce in prigione, figlio scartato della borghesia e qui capisce, finalmente, molte cose: capisce soprattutto che la rivolta individuale è solo un fatto este­tico, che è necessaria un'azione collet­tiva per cercare di cambiare le cose. La conclusione come vedi non è ama­ra, è positiva. E riguarda me... ».

Nel senso...
« Nel senso che io non credo più all'individualismo ma spero solo nel collettivismo... »

E ti sei iscritto a un partito di si­nistra?
Mi guarda attraverso il bicchiere che ha vuotato lentamente, sorseggian­do: « No, proprio no: per me il di­scorso collettivo abbraccia sei, sette persone al massimo... ».

Fabrizio tu sei un prodotto della borghesia, con padre ricco, bella casa a Genova, moglie di «taglio classico», figlio di undici anni. Spiegami le tue contraddizioni: il figlio lo mandi a una scuola privata, retta da religiosi...
« La famiglia, per un tormentato come me è un porto, guai non potessi approdarvi ogni tanto. L'educazione del figlio l'ho delegata a mia moglie anche se, sul problema scuola, mi so­no angosciato molto. Poi mi sono fat­to una convinzione: nella scuola pub­blica mio figlio si scontrerebbe con la società reale e con le sue contraddizioni, è vero, ma nella scuola privata, dove può studiare più tranquillamen­te, gli forniscono tutti quegli strumen­ti che gli saranno necessari per soprav­vivere in un mondo che diventerà un ordinato nazismo, dove lui dovrà po­ter combattere ad armi pari per so­pravvivere. »

Sei estremamente pessimista...
« Certamente: lottiamo con i nostri strumenti ma sono sprazzi: il maggio francese passa, i golpe restano, si moltiplicano, trionfano: l'avvenire è dei golpisti... »

Giorgio Gaber ha detto che tu usi un linguaggio da liceale che si è fer­mato a Dante, che fai dei bei temini, ma non si riesce a capire se sei libe­rale o extraparlamentare.
Fabrizio stavolta prende tempo, sor­seggia con calma il caffè, poi final­mente...
« Queste polemiche mi seccano ter­ribilmente e ho rifiutato sino ad oggi di rispondere: con tutti. Io stimo e ammiro Giorgio e mi spiace che lui, che si dichiara comunista, sia andato a raccontare queste cose al primo giornalista che ha incontrato. Poteva te­lefonarmi, farmi le sue osservazioni: ne avremmo discusso, ci saremmo con­frontati. Così, invece, ha svilito an­cora di più un mondo già tanto criti­cato. La canzone è considerata un’arte minore e i livori di Gaber non le fanno bene. Montale non ha mai polemizzato con Ungaretti. Io invece non considero la canzone un'arte mi­nore: Orfeo parlava con la lira, Pindaro con la cetra, Cecco Angiolieri aveva degli "uditori" perché s'espri­meva accompagnandosi col liuto. Non esistono arti minori ma artisti minori o maggiori. Bob Dylan o Brassens hanno significato qualcosa di più di certi crostaroli spacciati per gran pit­tori. Ecco perché non voglio rispon­dere a Giorgio, polemizzare. »
Chiacchierare gli costa sempre fa­tica, adesso poi è veramente stanco. Cerca di distrarsi parlando di calcio. E' tifosissimo del Genoa che appena può segue in trasferta.
« Le nostre passioni hanno delle origini imprevedibili, anche nel cal­cio. Durante la guerra ero sfollato in Piemonte e per me Genova era un mito, qualcosa di straordinario. Quan­do a cinque anni la vidi per la prima volta me ne innamorai subito, tremen­damente e alla prima partita della mia vita, Genoa-Sampierdarenese, sposai subito la squadra che portava il no­me della mia città. Un amore che non ho mai tradito, il più solido della mia vita fatta di contraddizioni continue. E' strana veramente la vita. E ora ti prego, vado a buttarmi sul letto: do­mattina devo tornare in sala d'inci­sione. Mi prenderò tanti tranquillan­ti... Come? E' inutile: ho già sonno così? Dici? Va bene li prenderò alle tre di notte quando mi sveglierò; co­me sempre, immancabilmente. Vammi a capire. »

10 commenti:

Anonimo ha detto...

io ADORAVO Goldrake!! e il 2008 sarà il suo anno, sonoTRENTANNI dal suo arrivo in Italia e pare che lo ripasseranno in TV! YEAH!!!

Maurone ha detto...

Mitico!!!!

Anonimo ha detto...

morir contento ed innamorato mentre a lei nulla era restato, non il suo amore non il suo bene ma solo il sangue secco delle sue vene...

io ho solo un vago ricordo degli anno 80...
ricordo i capelli cotonati, cacao meravigliao, rimini e gli smarties che mi passavano quei ragazzi simpatici amici dei miei genitori allora ventenni.
Ricordo quando mi portarono una sera in discoteca...avevo 6 anni e dormii tutta sera sui divanetti del bandiera gialla...
"E' ancora un fagiolino nel bacello" aveva detto mia mamma sorridendo al mio babbo mentre mi portava in braccio verso l'hotel...

Anonimo ha detto...

Sono cresciuta ascoltando De Andrè.. ed è l'unico cantante che in tutti questi anni non mi sono mai stancata di ascoltare e riscoprire ascolto dopo ascolto.

Pane, pomodoro e olio è buonissimo. Me lo faceva sempre mia nonna.

Maurone ha detto...

X Jean: ma il fagiolino nel baccello poi ne ha fatta di strada, ed adesso si chiede come far pace di nuovo al giorno e alla notte...

X Marea: De Andrè sarà sempre eterno, eeeeehhhh le nostre comuni origini......

Anonimo ha detto...

almeno De andrè ha avuto qualcuno che l'ha salvato dalla merda...mentre io ci sto sprofondando...

rob.

Maurone ha detto...

X Rob: che ti succede?

Anonimo ha detto...

non riesco a riprendere con il lavoro....
rob.

Anonimo ha detto...

il lavoro una passione.. per te è così ?
rob.

Anonimo ha detto...

vai in vacanza? dove ?
rob.