03 marzo 2007

La memoria di un giorno
settima ed ultima parte
Le mani di mia madre sembrarono rimpicciolirsi intorno al suo dolore, come a protezione del suo cuore, della sua anima, del ricordo della famiglia che eravamo, nella memoria di me e mio fratello Davide che giocavamo con le macchinine seduti per terra, in una estate a metà degli anni ‘60, su una terrazza di una pensione in Liguria, intanto che mia madre spazzolava i capelli di mia sorella Eliana che a sua volta, seduta su una sedia con il sedile di vimini, lisciava quelli della esangue bambola che teneva tra le mani. Mentre mio padre leggeva il suo quotidiano su una sedia a sdraio al riparo di una tettoia con il tetto di plastica verde ondulata. La memoria di un giorno si potrebbe dire, di un giorno normale, di una normale famiglia molto fortunata.
Sono passati anni, dolori, Natali e Pasque, ferie in agosto e fine settimana passati a fare gli straordinari, tonsilliti e antibiotici, partite di calcio in tv e letture di libri tascabili, vestiti comprati, vestiti lavati, vestiti rammendati, vestiti accorciati, vestiti allargati, vestiti buttati.
Sono nati figli, morti nonni.
Per arrivare ad una serata in teatro, con genitori emozionati, insegnanti curiosi, alunni vocianti. Ed una donna, una volta bella come una figurina delle sfilate parigine, in piedi, assorta, che aspetta di sedersi per guardare lo spettacolo in cui ci sarà sua nipote.
Con un imprevisto. Che si materializza sotto le spoglie della professoressa d’Italiano di Marta, la signorina Castigliano, che avvicinandosi a mia madre, chiede:
- È lei la signora Marta Quaglino?
- Sono la vedova Quaglino…o la signora Marta Jenner… dipende chi lei cerca.
- Cerco la nonna di Marta Quaglino della terza f.
- Allora sono io.
- Bene, allora senta…
Mia madre e l’insegnante di mia figlia Marta si misero a parlottare fitto e sottovoce. La signorina Castigliano poi indicò a mia madre la prima fila, mia madre annuì. Dopo poco si congedarono reciprocamente e mia madre girandomi verso di me, annunciò:
- C’è un posto riservato per me in prima fila, sai?
Nei suoi occhi brillava una luce insolita, poi aggiunse:
- Pare che tu avessi ragione, la nostra piccola Marta ha davvero molte sorprese in serbo per noi, stasera..
- Ti giuro che non ne sapevo niente. – dissi io realmente incredulo e curioso.
- Vai nonna, mi sa che sarai una specie di guest star stasera. – intervenne Adriano.
- Ma tu ne sai qualcosa? – gli chiesi.
- Pà, ho giurato di essere muto come un pesce, vedrai che scintille nel dopo recita. – disse, sottovoce, lui al mio orecchio.
- Scintille? – mi allarmai io.
- Calmo, calmo, fidati dei tuoi figli.
- Sì, come no….
Intanto mia madre ci lasciò al nostro colloquio e si avviò al suo posto in prima fila, indicatogli precedentemente dalla signorina Castigliano.
Passarono pochi minuti, le luci si abbassarono e il sipario si alzò. Assistemmo allo spettacolo, che era liberamente ispirato a "L'amico ritrovato" di Fred Uhlman, la storia di due studenti sedicenni, che nei primi anni ’30 del ‘900 vivono in Germania, tra i quali, dopo essersi incontrati a scuola, nasce un'amicizia magica e perfetta. Uno era un figlio di un medico ebreo, mentre l’altro apparteneva a una famiglia dell'alta nobiltà. L’avvento del nazismo divise i loro destini tragicamente. Mia figlia Marta faceva una parte breve, poco meno di dieci battute, interpretava la madre di uno dei due protagonisti, ovviamente di quello ebreo, era una personaggio singolare, goffo, una scelta sorprendente considerato l’indole espansiva di mia figlia.
Alla fine gli applausi scrosciarono sinceri. Tutti i ragazzi raccolsero il battimano e s’inchinarono e sfilarono via dal palco. Tranne Marta. Vidi Adriano che si avvicinava a mia madre e la inquadrava con insistenza, poi passava a riprendere la sorella, che aveva una espressione ieratica e fissa.
Ebbi un sussulto sulla mia poltroncina di decima fila. Che stava succedendo?
Mia figlia Marta iniziò a dire:
- Gentili Signore e signori… sono felice che lo spettacolo a cui avete assistito sia stato di vostro gradimento. Ora vi chiedo di pazientare ancora pochi attimi. Vorrei che ascoltasse le parole di una persona a me molto cara. Mia nonna Marta Jenner.
Disse questo e alzò il braccio verso mia madre, la invitò così a salire sul palco.
Vidi mia madre oscillare, poi comparve la signorina Castigliano, le offrì il braccio per accompagnarla, e dopo una brevissima esitazione, mia madre accettò l’invito.
Salì sul palco, prese la mano della nipote, si scambiarono uno sguardo, che dalla mia poltroncina non capì se fosse d’intesa o altro, poi mia madre guardò il pubblico, guardò anche me, ma senza vedermi.
- Buonasera, il mio nome è Marta Jenner, nacqui alla fine degli anni ’30, da mio padre Aronne Jenner, un artigiano, reduce decorato della prima guerra mondiale, e da mia madre Miriam Levi. Eravamo ebrei, ma non capii che cosa volesse dire fino a quando, nella primavera del 1943, non ci deportarono ad Auschwitz, lì dopo poche settimane, mio padre fu ucciso dai nazisti con un colpo di pistola alla nuca. Questo me lo raccontò mia madre quando tornammo in Italia. Io non ricordo molto di quegli anni, solo che ero costretta spesso a nascondermi in una baracca con degli altri bambini, stavamo stretti e ci alitavamo uno con l’altro per non sentire troppo freddo come ci dicevano le nostre madri. Poi un giorno le porte del lager si aprirono e noi iniziammo un lungo viaggio di ritorno verso casa. Ci accompagnavano degli uomini, italiani e piemontesi anch’essi, che erano riusciti a sopravvivere al campo di concentramento. Attraversammo mezza Europa, ci fermammo però diverse settimane, forse mesi, in Austria, o forse era Alto Adige, o forse era Ungheria o Germania, io non lo seppi , né lo capii mai. Ci fermammo perché mia madre aveva un ventre gonfio e doveva partorire. Così, in un casolare ai bordi di una montagna dove ci avevano dato ricovero, nacque una bambina, chiesi a mia madre se fosse mia sorella, lei dal suo letto mi disse di sì, mentre alcune donne di quella casa si affaccendarono intorno a lei con lenzuola sommariamente pulite. Mia madre mi chiese come voleva che la chiamassimo, io risposi “Lalla”, che era il nome di una bambola che avevo in Italia e a cui ero affezionata e non ritrovai mai più. Ma la mia piccola sorellina come era comparsa, sparì. Compresi, molto dopo, che non sopravisse che poche ore, poiché era prematura. Comunque non era frutto di un amore, ma della violenza del lager. Quando finalmente tornammo a casa, mia madre mi fece giurare che avrei dimenticato quello che era successo negli ultimi anni, che eravamo sole e che ci saremmo ricostruite una vita solo dimenticando ogni attimo, ogni episodio o sensazione che ci accadde da quando fummo segregati e deportati. Annuì e accettai il suo giuramento. E veramente lo rispettai. Anche quando, divenuta donna, mi sposai e crebbi con mio marito tre figli. Solo ora che lui non c’è più, come già da molti anni mia madre, mi affiorano alla memoria i ricordi di quella vita, di quella mia prima vita, i ricordi di una sopravissuta. Compresola memoria del giorno in cui nacque e visse mia sorella Lalla, che spese la sua vita come una rosa non colta.
Quando mia madre ebbe finito di parlare ci fu un attimo di silenzio, poi le persone applaudirono timide ed emozionate. O forse imbarazzate. Io mi alzai, con mia moglie Lucia andai a prendere mia madre e ci dirigemmo all’uscita. Fuori aspettammo la piccola Marta, mentre mio figlio Adriano prese l’auto di Lucia e si congedò da noi e raggiunse dei suoi amici in centro per bersi una birra,non prima di averci dato in consegna la telecamera. Quando mia figlia ci raggiunse c’infilammo in macchina e partimmo tutti e quattro silenziosi.
Accompagnammo mia madre a casa, la salutammo, lei mi guardò con degli occhi lucidi e disse:
- Ernesto sono una sopravissuta, lo sono sempre stata, sono sopravissuta al lager, alla ricostruzione di una vita, al progetto ambizioso di tuo padre di scalata sociale, sono sopravissuta all’ostilità dei miei suoceri e alle vostre sciagurate beatitudini di figli annoiati e ingenui, sono sopravissuta alla morte di Davide e di tuo padre, ed in tutto questo sono rimasta sola, accettando solo la compagnia delle ombre dei fantasmi di questi avvenimenti, forse, da stasera, sarà meglio che faccia uscire da me tutto questo.
Mi baciò e si avviò via.
Ritornando a casa nostra, chiesi a mia figlia:
- Come hai capito che tua nonna aveva questi segreti?
- Non l’ho capito. Lo sapevo.
- E come lo sapevi?
- Sapevo che nonna avrebbe dovuto dirci prima o poi qualcosa, l’importante era fargli trovare il momento giusto, e sai una cosa?
- No.
- Forse domani è meglio che fai una telefonata a zia Eliana e gli fai vedere questo.
Marta prese la telecamera in mano e me la tese vicino. Capii in quel momento che il bisogno di mia madre di parlare non era minore al nostro di sentire.
La fitta pioggerellina cadeva e ticchettava sul tettuccio della nostra auto. Scalai le marce e mi avviai a casa mentre tutti i semafori della città iniziarono a lampeggiare di luce arancione.

12 commenti:

Anonimo ha detto...

sembra che anche tu voglia conservare il passato nel proprio cuore ma anche nella scrittura...nelle riflessioni...per me è un'ossessione, che poi si deforma, si diluisce...si fa malattia....si fa scrittura...si fa anche, voluta eliminazione del passato...che talune volte, è solo morte.
un abbraccio
andrea
www.wrong-.splinder.com

Anonimo ha detto...

Mi ha commosso.

Complimenti.

Maurone ha detto...

X Andrea: sicuramente la scrittura è frutto dell'esperienza , della ricerca, anche la memoria si nutre di questi meccanismi, quindi memoria e scrittura hanno radici comuni, e si servono uno dell'altra per nutrirsi e rimanere vive, presenti.

X Marea: grazie, è bello sapere di averti donato emozioni

Anonimo ha detto...

bello, e molto "umano" nel senso che c'è tanta Umanità qui, nel dolore interiore di una Sopravvissuta, che significa più di tanti resoconti storici. E' molto bella l'angolazione con cui hai affrontato un argomento delicanto e scottante come l'eredità che il genocidio ci ha lasciato. Ai giovani si può raccontare la storia di quegli anni, con dovizia di dati e particolari e non si ottiene nulla. Per raggiungere la coscienza ci vogliono storie come questa, che parlano al cuore.
Io credo di aver imparato di più sul genocidio da "Se questo è un uomo" che da qualcisasi reportage, documentario o chessoio. Lì si parla di uomini, nel bene e nel peggio

Anonimo ha detto...

con gli occhi stanchi leggo emozioni che sai donare con la tua scrittura facendoci partecipi delle tue piccole e grandi avventure...GRAZIE DI QUESTO DONO!

tEmPhE ha detto...

Mi ha davvero emozionata.
Pensavo che -dopo tanto aspettare- sarei rimasta un pò delusa...come per un dolce che piace, quando ci si accorge che sul vassoio ne è rimasto uno solo.
Invece mi ha reso sazia perchè ho trovato, le tue scelte, giuste ed appaganti.
bene, maurone...e ancora grazie.
temphe

Maurone ha detto...

x Effimeramente: è difficile insegnare la storia alle nuove generazioni, la scuola dà solo nozioni e gli alunni hanno poca curiosità sui grandi temi sociali, già da ciò nasce l'attegiamento di delega, poi esistono anche isole felici ed eccezioni lodevoli, ma intanto la magggioranza... si dovrebbero incentivare la lettura di "Se questo è un uomo" o "La Tregua" di Levi, o "Fontamara" di Ignazio Silone, o "Il voltaggabana" di Lajolo, la storia sarebbe più assimilabile senza cadere di qualità, anzi....

x Mari: potessi scriverei di più e meglio, ma intanto mi "emoziono a sapervi emozionati"!

X Temphe: vale quello detto sopra, grazie per la franchezza ;-)

Anonimo ha detto...

due cose: 1)che pensi, a proposito di memoria, storia, di Fenoglio...penso che Il partigiano Johnny, sia un romanzo di bellezza primordiale....e pone così tanti dubbi proprio sulle scelte da compiere...e sulla solitudine che può comunque seguirti 2) Soldato Blu, ti piace?
and
www.wrong-.splinder.com

Anonimo ha detto...

come va con il lavoro?
robibandito

Anonimo ha detto...

alle medie, mi pare, l'ultimo anno dovevamo scegliere un autore italiano da portare all'esame finale. A me rimase solo Fenoglio, che non ho mai digerito, fosse perchè mi fu praticamente imposto. O perchè era così lontano dai miei gusti.

Maurone ha detto...

X And: tanti anni fa ho letto "I 23 giorni della città di Alba", credo possa essere un importante riferimento sugli anni di guerra, obiettivo. ma non conosco soldato blu, mi aggiorni?

X Robibandito: ho mandato curriculum in giro, questo chiarisce come risposta? Bisogna cambiare se si può.....

X Effimeramente: le cose imposte rischiano sempre di essere indigeste, ma peccato per Fenoglio, lui sarebbe stato contento di te, amava le persone libere. :-)

tEmPhE ha detto...

cosa hai mandato in giro??????????????????????????????????????????????????????????